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Plinio il Giovane, statua dall'edicola
dei fratelli Rodari (Como, lunetta del
portale mediano della cattedrale)
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Gaio Cecilio Plinio Secondo (61-112/113),
nipote dello storiografo Plinio il Vecchio, fu
allievo del famoso retore Quintiliano, avvocato,
consul suffectus e governatore della Bitinia
e del Ponto. Egli ci ha lasciato una raccolta
di epistole contenute in 10 libri, l’ultimo dei
quali contiene il carteggio ufficiale tra lui
e l’imperatore Traiano. Queste lettere risalgono
per lo più al periodo del governatorato di Plinio
in Bitinia, ovvero agli anni 111-113, e sono una
fonte documentaria di eccezionale importanza.
In una di queste lettere - scritta
nello stesso periodo in cui l’amico Tacito redigeva
il suo racconto sulla persecuzione cristiana del
64 - egli si rivolge a Traiano per ottenere istruzioni
da seguirsi nel trattare con i cristiani della
Bitinia e del Ponto, ove, come detto, ricopriva
la carica di legato con potere consolare.
Eccone il testo:
“E’ per me un dovere, o signore,
deferire a te tutte le questioni in merito alle
quali sono incerto. Chi infatti può meglio dirigere
la mia titubanza o istruire la mia incompetenza?
Non ho mai preso parte ad istruttorie a carico
dei Cristiani; pertanto, non so che cosa e fino
a qual punto si sia soliti punire o inquisire.
Ho anche assai dubitato se si debba tener conto
di qualche differenza di anni; se anche i fanciulli
della più tenera età vadano trattati diversamente
dagli uomini nel pieno del vigore; se si conceda
grazia in seguito al pentimento, o se a colui
che sia stato comunque cristiano non giovi affatto
l’aver cessato di esserlo; se vada punito il
nome di per se stesso, pur se esente da colpe,
oppure le colpe connesse al nome.
Nel frattempo, con coloro che
mi venivano deferiti quali Cristiani, ho seguito
questa procedura: chiedevo loro se fossero Cristiani.
Se confessavano, li interrogavo una seconda
e una terza volta, minacciandoli di pena capitale;
quelli che perseveravano, li ho mandati a morte.
Infatti non dubitavo che, qualunque cosa confessassero,
dovesse essere punita la loro pertinacia e la
loro cocciuta ostinazione. Ve ne furono altri
affetti dalla medesima follia, i quali, poiché
erano cittadini romani, ordinai che fossero
rimandati a Roma. Ben presto, poiché si accrebbero
le imputazioni, come avviene di solito per il
fatto stesso di trattare tali questioni, mi
capitarono innanzi diversi casi.
Venne messo in circolazione un
libello anonimo che conteneva molti nomi. Coloro
che negavano di essere cristiani, o di esserlo
stati, ritenni di doverli rimettere in libertà,
quando, dopo aver ripetuto quanto io formulavo,
invocavano gli dei e veneravano la tua immagine,
che a questo scopo avevo fatto portare assieme
ai simulacri dei numi, e quando imprecavano
contro Cristo, cosa che si dice sia impossibile
ad ottenersi da coloro che siano veramente Cristiani.
Altri, denunciati da un delatore,
dissero di essere cristiani, ma subito dopo
lo negarono; lo erano stati, ma avevano cessato
di esserlo, chi da tre anni, chi da molti anni
prima, alcuni persino da vent’anni. Anche tutti
costoro venerarono la tua immagine e i simulacri
degli dei, e imprecarono contro Cristo.
Affermavano inoltre che tutta
la loro colpa o errore consisteva nell’esser
soliti riunirsi prima dell’alba e intonare a
cori alterni un inno a Cristo come se fosse
un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare
qualche delitto, ma a non commettere né furti,
né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola
data e a non rifiutare la restituzione di un
deposito, qualora ne fossero richiesti. Fatto
ciò, avevano la consuetudine di ritirarsi e
riunirsi poi nuovamente per prendere un cibo,
ad ogni modo comune e innocente, cosa che cessarono
di fare dopo il mio editto nel quale, secondo
le tue disposizioni, avevo proibito l’esistenza
di sodalizi. Per questo, ancor più ritenni necessario
l’interrogare due ancelle, che erano dette ministre,
per sapere quale sfondo di verità ci fosse,
ricorrendo pure alla tortura. Non ho trovato
null’altro al di fuori di una superstizione
balorda e smodata.
Perciò, differita l’istruttoria,
mi sono affrettato a richiedere il tuo parere.
Mi parve infatti cosa degna di consultazione,
soprattutto per il numero di coloro che sono
coinvolti in questo pericolo; molte persone
di ogni età, ceto sociale e di entrambi i sessi,
vengono trascinati, e ancora lo saranno, in
questo pericolo. Né soltanto la città, ma anche
i borghi e le campagne sono pervase dal contagio
di questa superstizione; credo però che possa
esser ancora fermata e riportata nella norma”
(Epist. X, 96, 1-9)
Segue la concisa risposta dell’imperatore
Traiano:
“Mio caro Plinio, nell’istruttoria
dei processi di coloro che ti sono stati denunciati
come Cristiani, hai seguito la procedura alla
quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita
infatti una regola generale che abbia, per così
dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare;
qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli,
li si deve punire, ma in modo tale che colui
che avrà negato di essere cristiano e lo avrà
dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche
ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti
in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento.
Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione,
non devono godere di considerazione in alcun
processo; infatti è prassi di pessimo esempio,
indegna dei nostri tempi” (Epist. X, 97)
Plinio, da quanto si ricava da questa
epistola, ma in genere da tutto il carteggio,
ci appare come un funzionario scrupoloso e leale,
ma anche alquanto indeciso, in balia alla costante
preoccupazione di non prendere iniziative personali
che rischino di essere disapprovate dal suo superiore.
A ciò, da quanto trapela dalle risposte, fa riscontro
l’energica e sbrigativa sicurezza dell’imperatore,
che talora appare perfino infastidito dai continui
quesiti di Plinio; lo stile di tali risposte rispecchia,
specie nel lessico, il linguaggio tecnico-amministrativo
della cancelleria imperiale.
Plinio, nella sua epistola, ci informa
di non aver mai “preso parte ad istruttorie a
carico dei Cristiani”; l’uso del termine cognitiones
ci informa che doveva trattarsi di veri e propri
processi, e non solo di comuni operazioni di polizia.
Per questo motivo, egli non sa come deve comportarsi,
ed eventualmente quanto deve tenere in conto l’età,
l’eventuale precedente apostasia dalla fede e
il ravvedimento. Soprattutto, egli non sa se deve
processare il cristiano semplicemente come tale,
o per i delitti che una tale qualifica supponeva.
Rispondendo, Traiano non scioglie espressamente
questo dubbio; ma dalla sua risposta risulta nettamente
che era il solo nome di cristiano ad essere processato,
ciò che del resto risulta anche da altri documenti,
apologie, atti dei martiri, etc.
In effetti, non sono oggetto di inquisizione
le consuete accuse che il volgo rivolgeva ai cristiani,
le nefandezze che registrava Tacito. Né Plinio avvalora tali accuse di
crimina occulta; anzi, descrivendo il pasto
comune dei cristiani come semplice ed innocente,
rigetta implicitamente le dicerie di infanticidio,
riunioni edipodee e cene tiestee in cui ci si
cibava di infanti (cattiva comprensione dell’eucarestia,
in cui ci si cibava del corpo di Cristo?), e non
ritiene i cristiani pericolosi membri di eterìe,
sodalizi sovversivi. Ugualmente, egli ritiene
che “qualunque cosa confessassero, dovesse essere
punita la loro pertinacia e la loro cocciuta ostinazione”.
Il cartaginese Quinto Settimio Fiorente
Tertulliano (160-222 circa), avvocato e letterato,
assieme agli altri apologisti si è ampiamente
diffuso su queste calunnie che circolavano tra
il popolino (su cui aveva già fatto leva Nerone
per accusare i cristiani dell’incendio di Roma),
dichiarando espressamente che comunque non avevano
nulla a vedere con i motivi delle sentenze di
morte: “Le vostre sentenze”, scrive, “muovono
da un solo delitto: la confessione dell’essere
cristiano. Nessun crimine è ricordato, se non
il crimine del nome”. Egli anzi cita la formula di queste
sentenze: “In fin dei conti, che cosa leggete
dalla tavoletta? Egli è cristiano. Perché
non aggiungete anche omicida?”
Il procedimento di Plinio è il seguente:
egli interroga i presunti cristiani, e se essi
risultano tali, e non ritrattano entro il terzo
interrogatorio, li manda a morte. Per coloro che
neghino di essere cristiani, o dicano di esserlo
stato in passato, anche vent’anni prima (allusione
alle apostasie dovute alla persecuzione di Domiziano?),
egli pretende la dimostrazione di quanto affermano,
inducendoli a sacrificare agli dei, a venerare
l’effigie dell’imperatore e a imprecare contro
Cristo.
Traiano approva la procedura del
suo subordinato, aggiungendo che i cristiani non
vanno ricercati, ma quando vengano denunciati
debbono essere mandati al patibolo.
Tale curiosa istruzione sarà criticata
ferocemente dagli apologisti cristiani successivi:
i cristiani non vanno ricercati; se denunciati,
vanno puniti, a meno che non ritrattino la loro
fede. Evidentemente, se i cristiani fossero stati
accusati di delitti veri e propri, non si vede
perché non avrebbero dovuto essere giudicati per
quanto avevano fatto; e se fossero stati individui
colpevoli e pericolosi, avrebbero dovuto essere
ricercati, per rendere conto dei loro misfatti.
Così Tertulliano commenta tali disposizioni
imperiali:
“Scopriamo pure che nei nostri
confronti è persino proibita l’indagine. […]
Traiano rispose che non si doveva ricercare
questa gente, però la si doveva punire se veniva
denunciata. O sentenza apertamente contraddittoria!
Dice che non vanno ricercati, come se fossero
innocenti, e comanda che siano puniti, come
se fossero colpevoli. Risparmia ed infierisce,
sorvola e punisce. Per qual motivo esponi te
stesso alla censura? Se li condanni, perché
allora non li fai ricercare? Se non li ricerchi,
perché allora non li assolvi? […] Dunque voi
condannate un accusato che nessuno volle si
ricercasse, il quale, mi pare, non ha meritato
la pena perché colpevole, ma perché, non dovendo
essere ricercato, si è fatto prendere” (Apolog.
II, 6-11).
Il rescritto di Traiano è un documento
della incerta situazione in cui il governo si
trovava di fronte al successo della propaganda
cristiana, e della mancanza di una precisa e coerente
legislazione in merito; ma l’epistola di Plinio
ci procura anche una descrizione della vita religiosa
di quei cristiani della Bitinia e del Ponto. Essi
“sono soliti riunirsi prima dell’alba e intonare
a cori alterni un inno a Cristo come se fosse
un dio, e obbligarsi con giuramento non a perpetrare
qualche delitto, ma a non commettere né furti,
né frodi, né adulteri, a non mancare alla parola
data e a non rifiutare la restituzione di un deposito,
qualora ne fossero richiesti. Fatto ciò, avevano
la consuetudine di ritirarsi e riunirsi poi nuovamente
per prendere un cibo, ad ogni modo comune e innocente”.
Oltre al riferimento a Cristo, ed al suo culto,
abbiamo il primo accenno alla celebrazione dell’eucarestia.
NOTE
AL TESTO
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