L’icona della Natività
della scuola di Andrej Rublev
di
don Gianluca Busi
Introduzione alle icone
Quando contempliamo un’icona sentiamo un’insolita
familiarità. Probabilmente (anche se non lo
sospetteremmo mai) è perché ci troviamo
di fronte a qualcosa che avvertiamo come molto legata
alla vita di tutti i giorni; probabilmente l’oggetto
più vicino al quotidiano che tutti ci ritroviamo
in casa: la televisione.
L’icona infatti si presenta come uno schermo.
Ci sono alcuni particolari che ci aiutano a capire
questo. Il bordo rosso che ne traccia il perimetro
esterno infatti ha una funzione precisa: delimita
la realtà esterna (visibile con i nostri occhi)
dalla realtà interna (altrimenti invisibile).
In senso più preciso delimita il “profano”
che si trova fuori dal “sacro” che si
trova dentro l’immagine. Lo sbalzo interno alla
tavola delimita invece il bordo esterno da una zona
più interna chiamata anche “finestra”
o “culla”. Questo è lo “schermo”
vero e proprio dove ci è data la possibilità
di vedere un’immagine che non appartiene alla
nostra realtà visibile.
Quindi, se vogliamo forzare questo paragone icona-Tv
potremmo dire che: quando vediamo Jerry Scotti in
Tv (Jerry Scotti è preso come esempio proprio
per la sua mole), noi in realtà vediamo come
miracolosamente apparire sullo schermo una realtà
virtuale, lontana da noi: infatti Jerry non è
presente chiaramente nel nostro salotto. Quindi la
Tv è uno strumento adeguato per recepire e
rendere visibile qualcosa che, pur esistente, non
è realmente né presente né visibile
lì dove siamo noi. Dell’icona si possono
dire le stesse cose. Appare davanti ai nostri occhi
un’immagine soprannaturale che diventa visibile
attraverso uno strumento adeguato: l’icona stessa
appunto.
Trovarsi davanti ad un’icona significa guardare
attraverso una “finestra” che ha una vista
sull’invisibile. La prima cosa che si può
notare infatti è che le icone non hanno il
cielo azzurro, ma hanno dei fondi in oro zecchino.
L’oro è il materiale più prezioso
che esiste in natura ed ha una rifrazione perfetta
della luce. Per questo gli iconografi lo utilizzarono
per significare la luce increata, che è la
luce di Dio.
Guardiamo con attenzione: possiamo notare che le
figure non hanno le ombre. Questo perché le
cose e le figure contenute nell’icona appartengono
ad una realtà “trasfigurata”, e
non prendono luce dall’esterno ma contengono
esse stesse la luce. Questo concetto è una
eco di quanto si dice nell’Apocalisse: “Gli
eletti vedranno la faccia del Signore e porteranno
il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più
notte e non avranno più bisogno di luce di
lampada, né di luce di sole, perché
il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei
secoli dei secoli” (Ap 22,4-5). Dal punto di
vista pittorico questo è evidenziato attraverso
particolari molto singolari. Dalle vesti trasparenti
escono raggi di luce sempre più intensi, fino
ai tratti vivi di colore bianco puro nei punti dove
la pelle tocca le parti di tessuto a maggior contatto
con il corpo di luce.
Questo fenomeno raggiunge la massima intensità
nei volti. Il colore della pelle molto scura e i colpi
di luce molto intensi, rendono l’idea dell’abbaglio
che i nostri occhi hanno davanti ad una sorgente luminosa
troppo intensa: se noi guardiamo direttamente il sole
abbiamo un’esperienza analoga: vediamo il sole
nero e tutto attorno scorgiamo un alone luminosissimo.
Un maestro russo infatti consigliava di immaginare
i volti delle icone come se fossero costruiti su di
un scheletro trasparente con una lampadina dentro
e ricoperti di pelle, questo esempio può aiutare
a capire ancora meglio.
Le figure non hanno alcuni aspetti tipici della
pittura come la consideriamo tradizionalmente “noi
moderni”, ossia la costruzione dei volumi attraverso
il chiaroscuro e la prospettiva; questo per accentuare
il fatto che ci troviamo di fronte a corpi celesti
che non seguono la logica rappresentativa naturale.
La profondità e il volume vengono raggiunti
qui attraverso la sovrapposizione di colori molto
leggeri e trasparenti e il movimento verso l’esterno
viene sottolineato con lo spostamento dell’asse
della figura verso sinistra nel “profilo avanzante”.
Un altro particolare da considerare è quello
della “prospettiva rovesciata”. Un aspetto
ancora molto discusso fra gli interpreti delle icone
antiche. Sappiamo dalla scrittura che Dio disse a
Mosè che Egli non può essere mai visto
di fronte, perché “vedere Dio di fronte
significherebbe morire”, quindi Egli si fa vedere
“di spalle”. Probabilmente gli iconografi
cercarono di fare delle raffigurazioni con la prospettiva
inversa, dove “il punto di fuga” non è
dietro le figure ma davanti. Questo significa che
noi abbiamo una visione di qualcosa che avremmo potuto
vedere solo di spalle. Non è comunque facile
capire questo che è un punto controverso.
L’iscrizione: tutte le icone hanno una scritta
che designa o il titolo o il nome di un personaggio.
Normalmente sono scritte in slavo antico o in greco.
Probabilmente sono funzionali alla collocazione. Nelle
chiese ortodosse ci sono moltissime icone e i fedeli
devono poter capire attraverso l’iscrizione
a quale scena o personaggio si riferisce l’icona.
Le icone si dipingono con una emulsione formata
da tuorlo di uovo, vino ed essenza di lavanda, che
sono simboli rispettivamente: della risurrezione di
Gesù (anticamente infatti la risurrezione veniva
paragonata al pulcino che spezza il guscio ed esce
dall’uovo); del sacrificio, dove Gesù
offre il vino dicendo che è il suo sangue;
del profumo (come ricordo dell’unzione, con
un balsamo da 300 denari, di Maria Maddalena a Betania)
segno della dedizione completa dell’uomo al
mistero di Dio.
I colori sono possibilmente pigmenti naturali, in
genere terre e pietre preziose tritate. Questo vuole
sottolineare che tutto ciò che c’è
di più prezioso in natura viene messo a servizio
di queste rappresentazioni “trasfigurate”
della realtà. A pittura ultimata il dipinto
viene ricoperto con olio di lino cotto bollente e
sali di cobalto, che conferisce, una volta essiccato,
quella particolare patina “vetrosa” e
profumata che caratterizza il dipinto iconografico.
L’icona della NATIVITÀ di Andrej Rublev
L’icona della Natività risale al XV
secolo e viene attribuita comunemente alla scuola
di Andrej Rublev, massimo iconografo russo. Era monaco
ed è considerato Santo dalla Chiesa Ortodossa;
ha operato nei primi decenni del XV secolo dipingendo
per le più importanti basiliche russe. L’icona
della Natività non è di grandi dimensioni
(71 x 54 cm), per cui è facile pensare che
fosse stata dipinta per una casa privata. Il modello
della natività si iscrive in una lunghissima
scia che la tradizione orientale ha elaborato in modo
molto distante dallo schema occidentale del presepe
di San Francesco. La composizione, la scelta dei colori
e l’impatto fortemente unitario fanno di questa
icona uno dei massimi capolavori della iconografia
russa.
Osservando l’immagine si nota che vi è
una chiara tripartizione dello scenario. In basso
vi sono San Giuseppe e il Satana travestito da pastore
e le levatrici che lavano il bambino. Nel centro vi
è la scena vera e propria della natività
con gli angeli che adorano il bambino e i pastori
che vanno alla grotta. In alto troviamo i magi sui
cavalli, la stella cometa e gli angeli che annunciano
“una grande gioia” ai magi e ai pastori.
Tutte queste scene sono legate dalla onnipresente
“montagna”, colore della carne, che si
innalza dalla terra fino al cielo. La figura della
Madre di Dio, Maria, è al centro e domina tutta
la scena, proponendo una eco del passo del Vangelo
di Luca: “Maria, meditava tutte queste cose
serbandole nel suo cuore” (Lc 2,54). Se si traccia
una diagonale fra i lati, si scopre anche che il centro
cade esattamente sul grembo della Madre di Dio. L’impianto
fondamentale offre subito una visione chiarissima
ed esatta del soggetto in questione, proponendo una
contemporaneità delle scene che non è
di ordine cronologico.
Giuseppe viene ritratto nel momento più difficile
della sua vicenda personale: la sua posizione è
quella del dubbio mentre si trova nella tentazione,
infatti viene avvicinato da un pastore sotto mentite
spoglie (il Satana) che gli suggerisce di non credere
al sogno che ha ricevuto: “Come è possibile
che una Vergine possa concepire un figlio! Come è
possibile che la grandezza di Dio si sia nascosta
in questa grotta!”. Le levatrici che lavano
il bambino nel bacile, sono un richiamo ad un uso
invalso nell’antichità di lavare il bambino
per immersione per scongiurare infezioni post-parto,
ma sono anche il segno della nascita nella sua concretezza,
che qui viene inserito per indicare proprio questo:
Gesù nasce in una carne come ogni bambino.
La madre di Dio è sdraiata su di un materasso
rosso, segno nello stesso tempo della presenza di
Dio (il rosso) e della sontuosità delle suppellettili
regali. Il suo sguardo non è rivolto verso
il bambino ma sembra guardare oltre e abbracciare
tutte le scene nella ricerca di un significato (vedi
il richiamo a Lc 2,54).
Il Bambino Gesù ha una mangiatoia molto singolare:
ha infatti la stessa forma del Sepolcro nel quale
egli verrà calato. Già dall’inizio
l’artista non teme di indicare la direzione
che prenderà la vicenda di Gesù di Nazareth.
La mangiatoia nella stalla inoltre richiama un’immagine
diffusa anticamente: l’uomo si nutre di peccati
perché ha paura di morire, e cerca la salvezza
allo stesso modo in cui l’animale prende il
cibo dalla mangiatoia. Ora Dio lo va ad incontrare
proprio in quel luogo e si “fa cibo” per
lui: è chiaro il richiamo all’Eucarestia.
Alle spalle ci sono l’asino (il cavallo, perché
in Russia non si conosceva l’asino) e il bue:
chiaro rimando alla profezia di Isaia, “Anche
l’asino e il bue riconoscono la voce del loro
padrone, ma il mio popolo non mi (Dio) ha riconosciuto".
La grotta che contiene la scena è poi l’indicazione
sia della forza tenebrosa degli inferi che delle fauci
del Drago descritto nell’Apocalisse, che cerca
di divorare il bambino appena nato.
La stella cometa è rappresentata come un raggio
che si divide e che esce dalla mandorla azzurra, questo
segno indica comunemente la presenza di Dio nella
storia dell’uomo. La montagna che innerva tutta
la composizione è del colore della carne, e
indica che il movimento di assunzione della realtà
terrena si spinge a tutta la creazione, infatti le
montagne sono come strappate verso l’alto e
così anche i cespugli: tutto partecipa al movimento
di redenzione inaugurato dalla nascita di Gesù.
Gli stessi angeli alla sinistra della grotta si inchinano
verso il bambino che è nato: non solo tutta
la terra adora ma anche i cieli e i loro abitanti
si piegano in adorazione.
In alto sulla sinistra sono rappresentati i Magi
venuti dall’Oriente, avvertiti dagli angeli
e dalla cometa, simbolo della sapienza umana e della
ricerca dell’uomo di ogni tempo e di ogni religione
nei confronti di Dio. Sulla destra ci sono tre angeli
che annunciano, l’ultimo si piega verso il basso
e parla ai pastori, li avverte che è inutile
salire la montagna per incontrare Dio (idea legata
a tutte le religioni), è venuto il momento
in cui Dio stesso scende dall’alto e si fa prossimo
dell’uomo; bisogna semplicemente essere puri
di cuore per vederlo (Mt 5,8).
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