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La felicità non costa niente

Siamo stati a vedere "La felicità non costa niente" di Mimmo Calopresti. Il regista era presente in sala, all' Eliseo di Milano. Il film è a metà strada tra una storia di depressione e la vera questione umana, quella della felicità. In primo piano la divisione del vivere, della professione da una parte e degli affetti e il resto della vita dall'altra. Un affermato ingegnere, ricco sposato con figlio stupendo, finisce in depressione senza alcuna apparente spiegazione.

Appunto a causa della felicità che non ha. Si verrà a sapere poi che nel suo inconscio si agitava un rimosso quanto antico senso di colpa per la morte di un suo vecchio operaio. Ma è il solito escamotage psicanalitico per mascherare l'insondabilità e l'enigma di una infelicità di fondo che ci colpisce senza ragione. Se è questo che intendeva il Calopresti io concordo con codesto modo "normale" di impostare la questione della felicità.. Ci si scopre infelici o si diventa infelici senza un perché apparente. E allora la vita privata e professionale si spappola. Allora che fare? Ci si lascia andare... e pur di sentirsi vivi "stranamente" si accetta di separarsi dalla vita di prima come se fosse possibile. Pirandelliano qui il Mimmo; non per niente si finisce in polemica con la società e le sue consuetudini. Allora si fanno idiozie: si esce a cena con l'amante e i vecchi amici per sfidarne l'ipocrisia ...e nascondere la propria! «Nei rapporti si è ipocriti o si finisce per essere cinici», dice il protagonista (impersonato dallo stesso regista). Frase che è vera e incontestabile ma che non può diventare un alibi per far soffrire gli altri, per esempio moglie e bambino a carico...

Sembra che in Calopresti come nella cultura in genere la ricerca di un significato debba per forza passare dallo squassamento e dal male agli altri e a sé . Ciò si può comprendere qualora insorgesse una patologia depressiva. Tant'è però che negli stereotipi del cinema è ricorrente, troppo, la disarticolazione dell'umano. Non si vuol dire che non si debba rappresentare la fatica la sofferenza il male morale ma che per ritrovare il "bene- essere" o il "vero ben" si debba passare per forza dallo spappolamento non è scritto da nessuna parte. In sala ho detto al regista di aver apprezzato la tenerezza con cui nel film amava le varie donne- moglie compresa- o lo stesso figlio. In quella tenerezza io ho intravisto- così mi è sembrato- una via di uscita all'ipocrisia dei rapporti e al cinismo dominanti nella società. Tenerezza però che può e
anzi deve andare insieme con la responsabilità...tema "cenerentola",questo.

Il regista ha concordato con me purché - ha precisato- per tenerezza non si intenda quel morettiano mondo di felicità fatto di minimalia (leggi fuga). Da dove salta fuori quella tenerezza? non è un tema irrilevante se solo si pensa alla coppia vicina di casa che convive nella violenza e dalla quale anche il protagonista è più volte colpito. Qui il regista avrebbe dovuto esplorare di più o avere più...coraggio(?) C'è UN MISTERO NELL'UOMO. Chi vorrà tra i nostri registi PRENDERNE ATTO e tenerlo presente
nei propri lavori? Cosa se non il mistero(sia detto con rispetto per l'inconscio e di Freud!) può spiegare nel protagonista l'irriducibile tenerezza e l'incombente lasciarsi andare (al limite del clochard)? Che è
tenerezza? è la percezione del destino dell'altro, la condivisone del comune destino, la strana sotterranea imperiosa reciproca appartenenza. Non è tematizzato nel film di Mimmo ma ve lo si può leggere, c'è. C'è
tenerezza anche nel fatto che il protagonista ritorna sempre dagli antichi operai, ovvero al cantiere "sempre aperto"...al sociale.Fondamento roccioso della tenerezza è il mistero e non la disponibilità pelosa di chi è uscito per un attimo dai propri casini!

E' l'intuizione che sta dietro al film? la felicità non costa niente vuol dire che il vero ricco è colui che non ha bisogno di più di quello che ha! La felicità sta nell'essenzialità e nel realismo ! Per concludere. Nella
seconda parte del film ( l'incontro con Francesca Neri) il protagonista va in chiesa e rivolge al crocifisso una "preghiera senza fede" ("non so se credo o no"): è un Tu amletico(ci sarà o no?) cui egli si rivolge. E' un ricorso alla fede totalmente determinato da un proprio bisogno, e pur legittimo e umano. Ma la fede è altra cosa. Tuttavia la cordialità con cui si ritrae quel frammento di fede e l'umanità della suora ("Che fa suora? guarda?", e la suora "Non sono mica scema!") lungi dall'avere un peso specifico denotano una lettura non ideologica e senza pregiudizi delle forma tradizionale della religione. Non è poco! La felicità non costa niente è l'essere, il dono totale. Il film fa venire voglia di una pellicola che finalmente descriva l'umano che intercetta il mistero e viceversa, senza miracolismi; e che vi sia un rimando deciso ad altro, a quell'altro di cui la vita è fatta. La scena finale - quella della festa per il figlio sul balcone - resta infatti sospesa come in una non scelta, in una carenza di decisione ed energia per questo altro ( che non genera depressione o malattia mentale, i pallidi riflessi di una ineludibile esigenza di
felicità). Il rammarico - ma qui il discorso si fa personale e soggettivo - è di aver intravisto solo per un attimo - purtroppo - che se si accetta il mistero in cui si è immersi, il Tu che ci costruisce ci fa ci vuole alla
vita (bello il lampo di preghiera della Neri alla Vergine e che mi pare suonasse «Che mi dia vita!») si diventa più umani, sì più umani! Non è questione di ideologia o di religione: se si riconosce il mistero(non solo quello della malattia mentale) che c'è dentro l'uomo e lo si coltiva l'uomo è più uomo. Ed è forse qui che risiede l'origine della tenerezza, cifra rilevante nel protagonista, irriducibile al buonismo o a un volersi
torgliere di mezzo (dalla moglie e dai rapporti quando questi si fanno difficili). Il tutto esaltato dalla recitazione, franta e quasi strozzata del Mimmo, recitazione che è un grido, una nostalgia dell'altro, e di sempre altro.

Giuseppe Emmolo