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Sguardo teologico su un classico:
"Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Signor Hide"
di Robert Louis Stevenson

di Massimo Guizzardi

Riscoprire un classico da un punto di vista inconsueto

Mi rendo conto, iniziando questo articolo, di una certa pretesa nel titolo che qualifica addirittura come "teologico", più che di analisi, lo sguardo su di un'opera tanto nota nel titolo e nel suo doppio personaggio principale quanto poco conosciuta nel contenuto, come accade spesso per i classici (di cui ad esempio, erroneamente appunto, si identifica il nome del dottor Jekyll con la parte negativa, invece di riferirla a Mister Hide), specie in questa nostra epoca in cui molti passatempi e interessi hanno sostituito la lettura.

Solo per una rapida presentazione dell'opera diremo che il suo autore è lo stesso de l'Isola del tesoro, che risale alla fine del secolo scorso, che appartiene ovviamente alla letteratura di lingua inglese e che è diventata quasi per definizione "il romanzo sulla duplice natura dell'uomo". Questo lo sanno un po' tutti, anche perché presto fu trasposto per teatro e per cinema.

Il doppio personaggio e l'autore: gli influssi religiosi e culturali

L'ambiente della fine di due secoli fa, in cui Stevenson scrisse questo capolavoro, è epoca di forti contrasti: da un lato fino alla psicanalisi (che non è nata in ambito britannico né vi si diffuse subito) la sessualità è diciamo così repressa sia per ragioni religiose che sociali: "Niente donne" è l'accordo tra Stevenson e il suo editore per l'Isola dal tesoro dove in effetti l'unico personaggio femminile di un qualche rilievo è la madre di Jim; ancora più nel Dr. Jekyll le donne sono solo insignificanti figure di contorno della servitù dei vari personaggi; la prima vittima di un atto di violenza da parte di Hyde è sì una donna, ma una bambina che viene semplicemente calpestata.

In campo scientifico è forte la polemica sull'opera di Darwin, in cui si può scorgere una doppia valenza, utile per comprendere il nostro romanzo; da un lato fiducia positivistica nella scienza, dall'altro l'affermazione che la tanto esaltata "ragione" sorge da qualcosa di bruto, di istintivo e di irrazionale. In campo letterario è viva un'altra polemica: quella tra realismo e la tradizione romantica, che privilegia il fantastico, l'irrazionale, il magico; e naturalmente anche il religioso. Stevenson, dopo una forte crisi di fede nell'adolescenza, che lo pose in contrasto col padre, rigido puritano scozzese, all'epoca della stesura del "Dottor Jekyll" si stava riavvicinando alla fede; molti sono i rimandi all'educazione religiosa nel romanzo, in particolare al connubio tra rigore puritano e fantasia magica infantile instillatogli dalla bambinaia Alison Cunningham detta Cummy.

Il romanzo e il suo doppio protagonista

Nel "Dottor Jekyll" troviamo magistralmente illustrata la duplicità della natura umana in un modo che si discosta molto dalle idee positive e ottimistiche sull'uomo proprie del pensiero del Settecento e di parte dell'Ottocento, e che si ricongiunge, attraverso il calvinismo, ai grandi pessimisti o se vogliamo realisti della tradizione religiosa: Paolo, Agostino, Lutero e Calvino appunto, o Pascal; sia detto senza voler ipotizzare alcun rapporto diretto, se si eccettua la Bibbia e la spiritualità protestante, su Stevenson stesso.

Il pessimismo è anzi forse più forte: il male è infine scelto da Jekyll in maniera irreversibile, ed è descritto con espressioni che ricordano Paolo o Agostino: "Io stesso capii, al primo alito di questa nuova esistenza, che ero ben malvagio, dieci volte più malvagio, venduto come schiavo al mio peccato originale"; così si descrive Jekyll una volta entrato nei panni di Hyde: lui che si era definito, nella sua personalità originaria "dotato di molte eccellenti qualità, incline per natura all'operosità, pieno di rispetto per i miei maggiori e ben disposto verso i miei simili".

Si è parlato più sopra degli influssi culturali e del ruolo della scienza: non dimentichiamo che è per mezzo di un misterioso composto chimico, da lui stesso elaborato, che Jekyll ottiene la conversione nel suo "doppio"; un misto di scienza, alchimia e magia, in cui possiamo però già vedere un riferimento all'alterazione della personalità ottenuta attraverso le droghe; una realtà che era già di quell'epoca (pensiamo all'oppio) e non solo della nostra.

Se Jekyll è descritto come il tipico, compassato gemntleman inglese, alto e asciutto, Hyde non è mai descritto compiutamente, ma per "pennellate" sparse attraverso il romanzo, che danno però di lui un'immagine tra il diabolico e lo scimmiesco. Quando la pozione produce ormai il suo effetto da sola, Jekyll si sveglia la mattina e scorge "una mano grigia e pelosa". Hyde, scorto per strada, scompare di scatto, con un movimento fulmineo, dentro la sua stamberga che è poi la parte posteriore della casa di Jekyll. Sinistra e tetra com'è il suo abitante a contrasto della lussuosa e signorile dimora del suo "alter ego" buono (o almeno rispettabile).

Ma l'aspetto che qui ci interessa, traccia degli influssi forse meno consci dell'educazione religiosa, è l'associazione tra piacere e comportamento malvagio da una parte e noia, sacrificio col comportamento virtuoso dall'altra: "Mi sentii più giovane, più leggero, più felice fisicamente", così il protagonista descrive nell'ultimo capitolo gli effetti delle sue prima metamorfosi. "Scegliere di essere Jekyll", dice ancora, "significava rinunciare a quei piaceri di cui avevo goduto segretamente per tanto tempo e che da ultimo avevano cominciato a soddisfarmi in pieno". Piacere unito ad un abbandono pieno all'istinto: "Mi ero liberato dell'istinto equilibratore con il quale anche i peggiori, tra gli uomini, riescono a camminare fermamente nelle tentazioni, ma nel mio caso, ormai, essere tentato significava cadere inevitabilmente nell'errore". E' il caso di spiegare perché ci serviamo quasi esclusivamente del capitolo finale: l'opera è un "giallo" e come tale è letto da tanti, in cui solo alla fine, dopo che il malvagio ha commesso un omicidio, gli altri protagonisti scoprono (e nemmeno completamente) la verità sul doppio personaggio "giallo"; l'avvocato Utterson trova Hyde morto nell'appartamento di Jekyll ma solo il dottor Lanyon, che si ammala mortalmente per lo shock, assiste alla metamorfosi.

Nel capitolo finale la parola è data al protagonista stesso, il quale racconta come la sorte gli toglie la possibilità di redimersi (o forse solo di sfuggire alla giustizia) riassumendo definitivamente le sembianze di Jekyll. Alla fine Hyde prevale e, non è chiaro se per suicidio o per "overdose" della pozione, muore. L'opera è pervasa in definitiva da pessimismo sulla scienza: chi la possiede non ne fa buon uso. Ma forse qui non è il tema prevalente (a differenza dell'antecedente Frankenstein e di molte opere posteriori) rispetto, come ripetiamo, a quello della duplice natura dell'uomo. Duplice, ma con prevalenza del male: perché è la stessa parte buona che fa propria questa scelta e al rende definitiva.

Il dottor Jekyll e l'Isola

Scarsi sembrerebbero a prima vista gli agganci con l'altro capolavoro di Stevenson, l'Isola del tesoro, al quale riteniamo di dover dedicare qualche riga. Romanzo ritenuto "per ragazzi", storia in realtà d'iniziazione - e perciò stesso non priva di caratteri religiosi - antecedente, e non di poco, al trasferimento dell'autore nel Sud Pacifico, a differenza di quanto si crede, e cioè che sia tutto frutto di fantasia, ha una propria tematica centrale proprio nell'iniziazione all'età adulta e nella ricerca del tesoro, che è un "luogo letterario" molto diffuso, ma, non dimentichiamolo, soggetto di una parabola evangelica.

Il tema della duplicità della natura umana vi appare soprattutto nel tema della fedeltà all'alleato "buono" e nel doppio gioco di colui che in una prima versione ne era il protagonista, cioè il cuoco-pirata Long John Silver (anziché il ragazzo Jim Hawkins). Anche qui come nel precedente romanzo, "niente sesso, siamo inglesi" ma ricordiamo che Stevenson verso la fine della sua vita, a contatto coi popoli dei mari del Sud, rimprovererà proprio alle tradizioni religiose un atteggiamento repressivo verso questa componente fondamentale dell'uomo.

Conclusione

Un classico (è una definizione, mi pare, di Calvino) è un'opera che non ha mai finito di dire quello che ha da dire: si è tentato, modestamente, un approccio in chiave religiosa (forse teologica è dire troppo) di un autore fra i maggiori della letteratura di tutti i tempi. Un classico è anche un'opera di cui si può rivelare il finale, benché sia un giallo: ce ne scusiamo con chi non l'avesse mai letto, ma sarebbe come dire di ignorare la conclusione dei Promessi sposi.

Infine, lo scrittore di questo articoletto, nuovo per vicende personali a queste imprese, si chiede onestamente se ha scritto per studenti o per insegnanti. E' per tutti, comunque, un invito a riprendere in mano questo romanzo (breve tra l'altro) la cui fama non è purtroppo pari, lo si ripete, alla sua reale conoscenza da parte del grande pubblico.


Massimo Guizzardi