MERRY CHRISTMAS DA CHARLES DICKENS:
IL CANTO DI NATALE
di Massimo Guizardi
Molti sono i motivi che rendono celebre il Canto di
Natale, uno fra i “Christmas Book” composti
da Charles Dickens circa alla metà dell’Ottocento
(due secoli fa dunque), il più curioso sta
forse nel fatto che il nome del protagonista, Scrooge,
è stato scelto da Walt Disney per il personaggio
da noi conosciuto come Zio Paperone, appunto Uncle
Scrooge, zio Scrooge in inglese.
A parte questo, l’opera ha avuto numerose riduzioni
teatrali, fino ai più piccoli teatri locali
o parrocchiali; queste riduzioni risultano più
o meno fedeli al testo, com’è comprensibile
(in genere cercano di smussare gli aspetti più
legati al gusto dello spettrale, tipico della letteratura
nordica e anglosassone di due secoli fa) per cui qui
toccherà rendere giustizia al vero Dickens,
nei suoi aspetti ironici e anche comici ma anche in
quelli più sinistri, se non tragici, che sono
comunque parte integrante della lezione che ci vuol
dare.
Il Natale del Cantico
Anzitutto è bene sottolineare che, come emerge
da tutta l’atmosfera dell’opera, l’epoca
vittoriana inglese, epoca di opulenza ma anche di
grandi disuguaglianze sociali, è quella che
ha per così dire “inventato” il
Natale consumista moderno. Il vischio e l’agrifoglio,
il tacchino e l’oca, le ceste regalo, le rosticcerie
e i forni soprattutto per i poveri, che non potevano
permettersi una servitù per cucinarsi il pranzo,
i regali e le visite tra parenti anche lontani: tutto
nasce in quell’ambiente e in quell’epoca.
La tradizione cattolica mediterranea darà il
suo apporto col presepe, quella nordica scandinava
con l’albero, e così il quadro del Natale
sarà completato.
Nell’opera di Dickens non c’è
ombra di critica o condanna per tutto questo, come
di un “falso” rivestimento del mistero
del farsi uomo di Gesù; nel “Giorno di
Dio” è giusto far festa anche con l’abbondanza
della tavola, coi doni che richiamano quelli dei Pastori
e dei Magi, col dedicarsi ad allegri passatempi, alcuni
dei quali ancora in uso (come pensare a un personaggio
o un oggetto e tirare a indovinare) tanto più
che il tempo libero era allora molto meno che oggi.
E di tutto questo chi gioisce di più, nel mondo
di Dickens, sono i poveri: coloro le cui donne ornano
i vestiti di nastri perché gli abiti sono sdruciti,
che mangiano il pollo della rosticceria, che hanno
lo scaldino a brace e non il caminetto. La generosità
del ricco verso il povero è parte integrante
della festa e quasi unica forma di “giustizia
sociale”. Ma passiamo ad un esame più
dettagliato dell’opera, cercando di sottolineare
gli aspetti meno conosciuti.
Il protagonista e i quattro
spettri
Il protagonista del Canto di Natale è l’arcinoto
uomo d’affari, “forse” usuraio,
Ebenezer Scrooge; vecchio, scapolo, taccagno, l’autore
ce lo mostra insensibile sia verso i suoi simili che
verso le bellezze e le atmosfere delle stagioni e
della natura. Tratta il suo scrivano tuttofare Bob
Cratchit, come una pezza da piedi, a quindici scellini
la settimana e lesinandogli il carbone per riscaldare
il bugigattolo dove lavora. Del resto lo stesso Scrooge,
che la voce pubblica dice quantomeno piuttosto ricco,
non si concede lussi; modesti e frugali sono il suo
vestiario, il suo vitto, il luogo di lavoro e la sua
abitazione. Per il prossimo non scucirebbe un penny
e a due signori di un’associazione benefica
che, essendo la Vigilia di Natale, gli vengono a chiedere
un contributo risponde. “Le prigioni sono forse
state chiuse? Non ci sono forse gli ospizi?”
L’unica nota di allegria è la visita
del nipote Pere, che viene a chiedergli come tutti
gli anni di pranzare a casa sua l’indomani;
invito che Scrooge puntualmente rifiuta, bene intenzionato
a “non festeggiare il Natale” come ormai
fa da tanti anni:
Lo spettro del socio
L’operetta di Dickens si apre con la frase
“Il signor Marley era proprio morto”;
è costui, Jacob Marley, antico socio di Scrooge,
che gli si presenta sotto forma di spettro, nel suo
aspetto più sinistro (a un certo punto gli
si slaccia la mentoniera che ferma la mascella e la
bocca gli si spalanca nella posizione tipica dei morti),
legato con catene, che egli indica come il peso dell’avarizia
passata, annuncia a Scrooge la visita di tre altri
spettri, che hanno l’incarico misericordioso
di guidarlo a non fare la stessa fine. E’ difficile,
nelle rappresentazioni teatrali rendere il carattere
lugubre e sinistro di questa apparizione; l’escalation
dello scetticismo di Scrooge che poi si trasforma
in terrore e infine in trepida attesa che “qualcosa”
possa portare un mutamento in una situazione che evidentemente
sotto sotto non lo soddisfa. Fra l’altro questo
brano del “Canto” viene spesso semplicemente
saltato nelle riduzioni per teatro.
Complessa sarebbe l’indagine sulla “cultura
dello spettro” nella letteratura nordica e in
particolare, inglese. Abbiamo già accennato
a come il Natale sia diventato, nella cultura vittoriana,
il tipico “giorno di festa” anzi il “giorno
di festa per antonomasia, in cui si deve essere più
buoni, fare l’elemosina ai poveri, ma in cui
il legame col mistero che si celebra è sempre
più tenue, quasi scontato dopo millecinquecento
anni di tradizione. Comunque proseguiamo nell’analisi
degli altri capitoli, legati ciascuno a uno spettro.
Lo spettro dei natali passati
Questo primo spettro riporta Scrooge alla sua infanzia
e giovinezza, al villaggio dov’è nato,
dentro una misteriosa stamberga in rovina che sembra
essere una scuola e anche un’abitazione; il
tutto dà l’impressione di un Ebenezer
bambino abbandonato da severi e violenti genitori
(soprattutto il padre. A un certo punto fa la sua
comparsa Fan, sorellina di Scrooge e madre dei suoi
nipoti, che gli daranno per sempre quell’appellativo
di “zio”, Uncle appunto in inglese, ripreso
come abbiamo detto nei fumetti di Disney). Appare
anche il primo datore di lavoro di Scrooge, il suo
maestro negli affari il signor Fezziwig: tutt’al
contrario di Scrooge, bonario e amante delle feste,
e infatti un festoso Natale a casa sua è descritto
nei particolari proprio in questo capitolo. Prima
di ciò il maestro di Scrooge aveva però
offerto a lui e alla sorella Fan “un vino curiosamente
leggero e una torta curiosamente pesante” simboli
non facili da decifrare ma collegati probabilmente
alla morte della sorella dopo le prime maternità.
Quello delle feste di Natale è invece un
tema ricorrente nel Canto: oltre a quella presso il
signor Fezziwig, in cui le ospiti, la signora e il
padrone di casa si lanciano in scatenate danze tradizionali,
vedremo nei dettagli al capitolo seguente quella in
casa di Bob Cratchit, segretario-fattorino-tuttofare
di Scrooge, e quella a casa dei nipoti.
Ma l’episodio più commovente, al quale
Scrooge supplica inutilmente lo spettro di sottrarlo,
è l’addio con la fidanzata: essa gli
rimprovera dolcemente ma apertamente di avere sostituito
nel suo cuore l’amore di lei con l’amore
del denaro. E qui veramente la polemica di Dickens
contro la logica dell’accumulo, dell’efficientismo,
del dare importanza solo a ciò che è
utile, che la società moderna si porta ancora
dietro con tutto il suo peso, veramente non può
essere tacciata di retorica.
“La felicità che sa dare è grande
come se valesse una fortuna” dice poco prima
lo spirito a Scrooge, quando questi, per giustificarsi,
accusa Fezziwig di generosità non disinteressata.
E queste parole gli rivolge la fidanzata. “Un
altro idolo ha preso il mio posto, e se esso soltanto
potrà rallegrarti e confortarti come ho cercato
di fare io, non avrò di che lamentarmi in avvenire”.
“Quale idolo ha preso il tuo posto?” chiede
Scrooge. “Un idolo d’oro”, gli risponde
con la massima franchezza la ragazza. La fidanzata
le ricorda come l’avesse scelta, anni prima,
benché fosse una ragazza senza dote, e si sa
quanto le convenzioni sociali pesassero nei tempi
passati, in tutti i paesi occidentali, da questo punto
di vista. A questo punto Scrooge prega lo spirito:
“non mostrarmi altro” e l’episodio
su questa toccante scena si chiude.
Lo spettro del Natale presente
E’ questo il capitolo in cui, attraverso la
descrizione della città in festa, fin nei suoi
quartieri più miserabili, nei negozi ancora
semiaperti, nell’andirivieni della gente allegra
carica di pacchi regalo, e soprattutto in due pranzi
natalizi privati, quello dello scrivano di Scrooge,
Bob e quello di suo nipote (di livello sociale più
alto quest’ultimo) è ben delineato il
Natale vittoriano
E’ indubbiamente questo il lato più
interessante del capitolo; scontato è il fatto
che lo spirito mostri a Scrooge come sia il dipendente
che i nipoti si lamentino della sua tirchieria. A
casa di Bob non ci si dimentica però di brindare
in suo onore, perché a Natale si devono comunque
dimenticare i rancori; a casa del nipote lo si prende
garbatamente in giro col gioco del “sì
e no” o “indovina”, gioco di società
ancor oggi popolarissimo e che non richiede accessori,
se non appunto il buonumore.
A casa Cratchit (lo scrivano) il tono di commozione
è dato del personaggio di Tiny Tim, il piccolo
Tim, il figlio minore, storpio, di Bob; per lui c’è
un lugubre presagio di morte, per la malattia e la
costituzione gracile, che sarà confermato nel
terzo capitolo, quello sui natali futuri. L’opera
è tanto nota che potremmo anche rivelare il
finale, ma preferiamo concludere, dopo l’esame
del terzo capitolo, con alcune considerazioni: quest’opera,
al di là dei suoi indiscussi pregi letterari,
si pone come la matrice della retorica per cui “a
Natale tutti buoni” (e siamo tutti d’accordo
che un giorno l’anno non costa poi tanto) o
è una metafora, neanche tanto coperta, attraverso
la più sentita, almeno in epoca moderna, delle
feste cristiane, della conversione, cioè di
un cambiamento di vita non “per un giorno”
ma per tutta la vita? Vedremo proseguendo nel nostro
esame.
Lo spirito del Natale futuro
Questo terzo capitolo ci fa ripiombare nella sinistra
atmosfera che aveva accompagnato l’apparizione
dello spettro di Marley, anzi, ancora di più;
qui uno spettro, figura anche piuttosto palese della
morte, ci riporta in un’atmosfera da “autunno
del Medioevo”: Scrooge muore e i suoi effetti
personali sono spartiti con macabra soddisfazione
da rigattieri dei bassifondi, i quali ironizzano sul
fatto che, ricco com’era, non sia riuscito neanche
a darsi un tenore di vita decente, a “godersi
la vita” tanto era taccagno.
Anche il piccolo Tiny ha un destino di morte, commovente
è la scena in cui il padre Bob, la madre e
le sorelle promettono di onorarne la memoria.
Il capitolo si conclude con un netto proposito di
ravvedimento da parte di Scrooge: “Onorerò
il Natale nel mio cuore, e cercherò di conservarmi
in questo stato d’animo per tutto l’anno.
La lezione che mi hanno dato i tre spiriti non sarà
vana”.
Concludendo: un Natale di buoni
sentimenti o di conversione?
Anzitutto dobbiamo ricordarci, nel trarre queste
conclusioni, che quest’opera di Dickens è
una favola, dobbiamo sempre aver presente il suo genere
letterario, non un trattato di spiritualità
per la qual cosa ovviamente occorre rivolgersi ad
altri autori.
Quanto abbiamo detto più sopra sul dovere
di festeggiare Natale con pranzi, regali e beneficenza
è confermato ed evidente in tutta l’opera,
che del resto si conclude con un “Il Signore
ci benedica tutti quanti”. Anche il fatto che
la gente vada in chiesa e che anzi ci vadano tutti
è chiaramente evidenziato; un comportamento
diverso non era allora pensabile se non in qualche
aristocratico libero pensatore.
Nel quadro della favola, che presuppone senza dubbio
anche pur se non esclusivamente lettori bambini, l’atmosfera
magica della festa con quanto ha di scintillante e
di abbondante ha un suo ruolo fondamentale. Abbiamo
già accennato come un certo Natale che dura
fino ad oggi e che oggi si vuole non a torto tenere
distinto dal Mistero che si celebra, che è
mistero di solidarietà e generosità
ma anche di povertà, nasce proprio allora,
in quell’Inghilterra che era senza esagerare
il paese più ricco del mondo.
La prosperità della sua ex colonia, gli Stati
Uniti, che proprio in quei tempi si stava faticosamente
costituendo come nazione, era ancora di là
da venire, bisognerà attendere la fine del
secolo e il compimento della “corsa all’Ovest”.
Con le sue colonie e i suoi commerci, l’Inghilterra
è in grado di portare sulle tavole dei londinesi
che se lo possono permettere prodotti di ogni provenienza
e anche nelle descrizioni del “Canto”
ce n’è traccia.
La “conversione” di Scroooge nel quadro
dell’etica protestante è conversione
alla generosità, non alla povertà; egli
era fin troppo sobrio ma per amore dell’accumulo
e della ricchezza finanziaria fine a se stessa. La
conclusione ce lo vede diventare persino spendaccione.
Ma non vogliamogli troppo male e soprattutto non spostiamo
polemiche e tematiche attuali in un’altra epoca
e in un altro ambiente.
Dickens non ha bisogno di spiegarci “cos’è”
il Natale; tutti lo sanno, e perciò stesso
sono felici, e lo manifestano anche nell’allegria,
nel fare festa e nel mangiare un po’ di più.
Del resto c’è già in questo autore,
come in altri suoi contemporanei, la consapevolezza
della “questione sociale” che segnerà
l’Ottocento con lo sfruttamento sistematico
di quello che da Marx è detto “proletariato”
e al quale la Chiesa cattolica darà una risposta
ponderata sì ma forse anche, almeno a livello
di magistero, un tantino tardiva con la "Rerum
Novarum”, 1891; ricordiamo che il Canto è
del 1848, lo stesso anno del Manifesto di Marx ed
Engels. Le disuguaglianze sociali non scompaiono nell’allegria
generale della festa, anzi pur nel carattere di favola
dell’opera, sono chiaramente marcate.
C’è dunque almeno l’inizio della
presa di coscienza di una solidarietà più
grande, più vasta, che per il momento passa
attraverso l’appello raccolto dalla coscienza
di un solo uomo, ma che richiede, è chiaro,
e proprio in nome di quel messaggio del Natale, qualcosa
di più da parte di tutti: quella “felicità
che sa dare e che è grande e vale come una
fortuna”.
Massimo Guizzardi
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