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IL MITO DELLA SOCIETA’ TERAPEUTICA
La tirannide della salute
da La Stampa
- 20 marzo 2005
di Barbara Spinelli
TUTTO è avvenuto così rapidamente,
che quasi non ce ne siamo accorti: una cosa da mozzare il fiato,
come s’è detto della presunta sveltezza (ventott’anni)
con cui è caduto il Muro di Berlino. La tirannide della salute
si è insediata nelle nostre società, con effetti che
fanno pensare a una rivoluzione non solo sociale, ma antropologica.
E’ cominciato negli Anni 90 con l’aumento esponenziale
delle malattie che ci affliggono o possono affliggerci, se non cambiamo
stile di vita al più presto sotto la frusta della legge.
E’ una tirannide che ha invaso le famiglie e i rapporti con
gli altri, gli spazi pubblici e quasi per intero le vite private.
Ha trasformato l’intera umanità in un gregge di malati
e malaticci potenziali, dando vita a quell’ibrido che è
il cittadino-minorenne e perennemente invalido, incapace di disciplinare
da solo l’esistenza: il cittadino infantilizzato, che non
viene informato o convinto, come accade in democratiche discussioni
d’adulti, ma che lo Stato deve educare, persuadere, raddrizzare
come legno storto.
Alla Repubblica dei filosofi sognata da Platone s’è
sostituita la Repubblica dei medici e ministri della Sanità:
i soli abilitati a dire in cosa consistano il viver-bene, la convivenza
sociale, e perfino l’ultima roccaforte dell’individuo
- l’intimità - di cui lo Stato vorrebbe appropriarsi.
Società terapeutica è il nome dato a simile Repubblica
sanitaria, e in essa gli uomini non dipendono più gli uni
dagli altri, solidalmente, ma tutti dipendono da autorità
superiori e da professionisti medici, nutrizionisti, ginnasti, e
via medicalizzando il comando. Le società occidentali non
sono mai state meglio dal punto di vista sanitario, i loro abitanti
non hanno mai vissuto così a lungo. Ma ecco che questo lungo
diventa insopportabilmente breve, quasi che l’immortalità
terrena fosse desiderabile e a portata di mano. Promettendo di raggiungere
quest’ennesima utopia, lo Stato si arroga la supervisione
delle vite private e in cambio finge di promettere una vita quantitativamente
più lunga, anche se non migliorata. Migliorare l’individuo
o la società è un’aspirazione di ieri, un’opportunità
grandiosa che solo il Papa evoca ancora. Adesso ci si accontenta
di congelare lo status quo biologico, e massimamente virtuoso è
chi sopravvive, più di chi fa qualcosa di buono della vita.
È anzi eroico sopravvivere, è la nostra nuova religione.
Lo scrive Michael Fitzpatrick, critico della società terapeutica
inaugurata dal laburismo di Tony Blair. «Ai sette peccati
mortali si son sostituiti i quattro capisaldi della tirannide della
salute»: non fumare, non bere, mangiar sano, fare esercizi
(Michael Fitzpatrick, Tiranny of Health, Routledge 2001).
Morale è chi persegue questi quattro traguardi,
non chi osserva i comandamenti biblici più scabrosi come
quelli che ordinano di onorare il padre e la madre, di non uccidere,
di non rubare, di non dire falsa testimonianza, di non desiderare
la roba d'altri (rispettivamente il quarto, quinto, settimo, ottavo,
decimo comandamento). Può accadere - accade in Italia - che
un ministro della Sanità specialmente rivoluzionario nell'ideare
leggi terapeutiche si riveli poi molto meno incorruttibile, a seguito
di indagini sui suoi conti all'estero. Può accadere che un
parlamentare Usa indagato per malversazioni, Tom DeLay, diventi
il più strenuo difensore della «cultura della vita»
e neghi la morte assistita alla povera Terri Schiavo, ridotta da
15 anni allo stato vegetativo. Il moralizzatore del nostro corpo
non ha da esser morale nell'anima, perché il corpo è
divenuto infinitamente più prezioso ed etico dello spirito.
La politica è ormai un'arte difficile, mal regolata da politici
sempre più a corto di progetti trasformatori: appropriarsi
delle scelte private dei cittadini, comprese le più tragiche,
è l'ultima loro opportunità e la più potente
delle loro aspirazioni.
È così che il viver sano ha sostituito
il viver bene delle antiche filosofie, che la divisione tra sano-non
sano ha soppiantato il bene-male. Finora accadeva nella fantapolitica,
oggi realizzata. In un delizioso romanzo del 1872, lo scrittore
Samuel Butler descrive un mondo in cui tutti i valori sono capovolti,
e gli dà il nome di Erewhon, anagramma di Nowhere (nessun-luogo).
A Erewhon i malati son trattati come criminali, processati, trascinati
in prigione. Un raffreddore è disgrazia da nascondere: qualsiasi
concittadino può denunciarci. Ben altro trattamento riceve
il vero crimine, curato come mera indisposizione. Ladri e assassini
sono medicati in ospedali dove regnano le buone maniere. Con affettuosa
premura, i parenti s'informano: a che punto è la cura? Come
si sente il ladro? (Butler, Erewhon e Ritorno a Erewhon, Adelphi
1975).
Butler criticava l'Inghilterra vittoriana, ossessionata
dalle malattie soprattutto veneree. Non sapeva che qualche decennio
dopo, agli inizi del nazismo, la religione del salutismo fondamentalista
avrebbe reclutato nuovi sacerdoti. È all'epoca del nazionalsocialismo
che risale la prima guerra preventiva contro il cancro, tramite
il divieto di fumare: ogni individuo ha «il dovere di essere
sano», dice Hitler, e con lui ha inizio, scrive lo storico
Robert Proctor, «il primato del bene pubblico sulle libertà
individuali». Giovani e donne, più soggetti alle mode,
sono le categorie che più interessano il regime. Le prime
ricerche sul nesso fra fumo e cancro polmonare (rivelatesi attendibili
negli Anni 50) sono di quell'epoca. Nel mirino della campagna è
il capitalismo del tabacco, detto anche «nemico del popolo».
Per la prima volta si denunciano i pericoli del fumo passivo (Robert
Proctor, The Nazi War on Cancer, Princeton University Press, 1999).
Eva Braun, amante del Führer, fumava di nascosto.
Con questo non si vuol dire che la società
terapeutica sia totalitaria per il solo fatto che anche Hitler la
voleva. Hitler amava anche Wagner o Böcklin: un grande musicista
e un pittore notevole. Si vuol solo dire che i vantaggi di simile
società (l'apprendimento di una disciplina del corpo, anche
se imposta dall'alto e non frutto di auto-nomia) non superano gli
inconvenienti. Se ogni condotta sanitaria viene criminalizzata,
se il comportamento del fumatore è causa sicura - anche se
non provata - della morte di chi il fumo lo subisce, allora la società
si fonderà sulla sfiducia, sulla diffidenza dell'altro, e
su un immenso dogmatico conformismo che esclude ogni diverso. Ne
verrà sfigurata anche la politica, che in cambio di una chimerica
sopravvivenza biologica interverrà negli spazi più
reconditi della vita privata. In questo l'Italia è più
simile all'America che non agli europei. Basta andare a Parigi,
a Londra, a Berlino, e il fumatore non avrà la netta impressione
d'essere un lebbroso.
È una singolare obbedienza alla legge, quella
degli italiani. È come se venissero spazzati via secoli di
insubordinazione, di allergia allo Stato forte, alle regole. Ma
l'Italia non è stata mai allergica ai conformismi di massa,
alle mode di chi s'attruppa, alle prigioni del «comune sentire».
Oggi vanno di moda il salutismo, il sesso sano, il mangiar sano,
e finché regnerà questa moda tutti ci comporteremo
come agnelli. L'Italia è poi un Paese dove fare e cambiare
è divenuto impresa politica ingrata, dopo la crisi dei partiti
e della sinistra libertaria: tanto più tracotante e invasiva
si fa l'ambizione del potere a tutelare il privato di ciascuno.
È ancora da studiare il fascino che la dittatura
della salute esercita sugli italiani. Così come è
da studiare il potere che esercitano da noi i paladini del sopravvivere
più a lungo possibile, sia di destra sia di sinistra. Un
giorno è la sigaretta, che ci uccide. Poi siamo trafitti
dal pollo, o dal bacio. Qualche giorno fa ci è stato detto
che ben più mortiferi della polluzione automobilistica sono
il latte, la farina. La verità - scrive ancora Fitzpatrick
- è che nella dittatura della salute si rovina la vita dei
sani, che dovrebbero esser lasciati in pace, mentre non ci si occupa
dei malati. Può darsi che le spese sanitarie ne profitteranno:
ma non ne profitteranno gli esseri umani, alla cui natura antropologica
si sta attentando con politiche che dilatano la paura di tutto e
di tutti.
L'11 settembre 2001 abbiamo appreso che il
mondo è abitato da bombe umane, pronte a uccidere noi e la
nostra civiltà. Ma praticamente ciascuno di noi è
oggi bomba umana, con tutti i malanni che ci portiamo dentro, e
sempre più difficile è sapere la civiltà che
difendiamo: se una società in cui non si muore mai e al nostro
lato cammina sempre qualcuno che ci vuol male, o una società
in cui tutti i nomi delle nuove malattie (stress, obesità,
depressione) sono in realtà i nomi di altrettante colpe morali.
A Erewhon ci fu un tempo in cui si comminava la pena di morte, a
chi s'ammalava oltre misura. Noi non siamo ancora a quel punto.
Ma già oggi il corpo di ciascuno di noi ha preso il posto
della nazione, della classe, della razza. È lui, adesso,
a dover essere puro, sottratto al destino di vittima. Lo Stato si
assume questa responsabilità, cancellando le ultime frontiere
tra pubblico e privato. Era il sogno dei vittoriani e poi delle
dittature, come s'è visto. Rischia di divenire il nuovo sogno
eugenetico dei regimi democratici.
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