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Contro l’Eugenetica
di (eb)
- da Il Foglio 12-02-05
“La
scienza ci aiuti a vivere e non si applichi a negarci la nascita”,
Rita, dalla sua sedia a rotelle
Milano. “Se io, donna con disabilità,
mi recassi in clinica per essere sottoposta a inseminazione in vitro,
cosa mi si direbbe? Ho una malattia genetica, va bene; ma è
un mio diritto avere un figlio, o no?”. Non c’è
astio nell’interrogativo di Rita Barbuto, direttore europeo
di Dpi (Disabled peoples’ international), ma un tono di sfida,
vigoroso e sardonico, affiora. Rita si muove su una sedia a rotelle
e con la sua organizzazione si batte “per dire che questa
nostra vita tanto sciagurata non è” e che “l’eugenetica
non è un rischio lontano, ma una realtà. I test prenatali
non servono forse a scegliere il figlio perfetto?”. Dpi è
un’organizzazione mondiale impegnata dal 1981 nella difesa
dei diritti delle persone disabili e nella promozione della loro
piena e pari partecipazione alla vita sociale. E’ rappresentata
grazie all’adesione attiva di enti nazionali in più
di 135 paesi. Nel 2000 Dpi ha presentato una “Dichiarazione
di orientamento su bioetica e diritti umani”, in cui si rileva
come “molte persone disabili oggi sono vive solo grazie al
progresso scientifico e alle scoperte mediche, ragion per cui desideriamo
sostenere il progresso laddove apporti benefici per tutti. Tuttavia
vogliamo vedere la ricerca diretta al miglioramento delle qualità
delle nostre vite, non a negarci l’opportunità di vivere”.
E i punti critici su cui Dpi si sofferma sono: controlli e test
prenatali, diagnosi genetica pre-impianto, infanticidi in ragione
della disabilità, eutanasia, determinismo genetico e brevettabilità
del gene. In Italia Dpi nacque nel 1984 su iniziativa di Giampiero
Griffo che attualmente ne è presidente a livello europeo.
Racconta Griffo al Foglio: “Siamo stati i primi, fra le associazioni
italiane, a parlare di rischi eugenetici. E ricordo che l’accoglienza
del nostro allarme non fu delle migliori, anzi, siamo stati accusati
di voler impedire la ricerca scientifica”. Nel 1995 l’organizzazione
Inclusion International, nell’ambito della discussione sul
genoma umano all’Unesco, presentò un dossier problematico
sulle pratiche genetiche, “e noi – prosegue Griffo –
l’abbiamo diffuso in Italia. Finché, nel 2000, un gruppo
di lavoro composto da rappresentanti di Dpi di Francia, Italia,
Portogallo, Spagna e Regno Unito, ha elaborato la Dichiarazione
di orientamento”. Poco dopo la presentazione del documento
Dpi organizzò un convegno a Roma, “ma non venne nessuno”
ricorda Rita Barbuto. “Oggi, i rapporti con le altre associazioni
italiane sono più distesi e la collaborazione è proficua.
Ma, quando ponemmo sotto gli occhi di tutti i nostri timori che
con i test pre-natali, l’interruzione selettiva delle gravidanze
indesiderate e l’eutanasia dei disabili adulti, si praticassero
delle discriminazioni nei confronti dei disabili, furono in molti
ad attaccarci accusandoci di essere contro il progresso scientifico”.
E invece? “E invece non è così – ribatte
Griffo – perché Dpi non ha lo scopo di prendere, o
far prendere ad altri, posizione pro o contro l’aborto o la
fecondazione in vitro. Noi vogliamo semplicemente far notare che
la crescita esponenziale dei mezzi scientifici di questi anni è
avvenuta senza un’adeguata definizione dei fini e che spesso
i pregiudizi verso di noi si annidano anche all’interno della
comunità scientifica”. Per questo Griffo e Barbuto
sono “spaventati”, come scrivono nel testo della Dichiarazione,
dalla “selezione che conduce a sbarazzarsi di embrioni con
potenziali patologie, dalle leggi abortiste che discriminano la
nascita di bambini disabili, dalla promessa di manipolazione genetica
di eliminare tutte le differenze”. Per Dpi non si può
discutere di disabilità senza parlare di disabili, non si
può ricadere nel determinismo genetico che riduce una persona
ai suoi geni. “Oggi le terapie in quest’ambito –
nota Griffo – sono pubblicizzate come la soluzione per ogni
malattia e i fondi sono raccolti mostrando i disabili come vittime
impotenti della loro sorte. Oggi, coppie che non potrebbero avere
figli, possono sceglierne uno con la ‘garanzia’ che
non avrà minorazioni. Ma quest’idea di una società
immune dalla malattia e che sogna di abolire il male non si accorge
che, nel frattempo, elimina i malati”.
Date un nome proprio alla malattia
A Griffo e Barbuto viene il voltastomaco per la mielosità
con cui le loro storie e immagini sono state usate per giustificare
la raccolta di fondi per beneficenza e ricerca. “Questo –
concordano – non perché tali donazioni siano un male
in sé, anzi. Ma è come se si veicolasse il messaggio
per cui il disabile è la sua disabilità. E la conseguenza
è che si pone sempre l’accento sulla patologia e mai
sulla persona reale che quel male si porta addosso. Mentre un uomo
è molto altro e molto di più della sua condizione
di salute”. Il presidente e il direttore di Dpi chiedono solo
“che non si butti il bambino disabile con l’acqua sporca.
Si rischia che quel figlio si chiami Beethoven o Toulouse Lautrec”.
Ma anche se si chiamasse Marco o Antonio, non meriterebbe il cestino.
Il problema è che, finché si discute di malattia e
non di malati, finché alla realtà non si dà
un nome proprio, finché persiste una cultura che medicalizza
la vita, “non si comprenderà mai – dice Griffo
– che ogni esistenza è un dono, anche le nostre. L’associazione
dei genitori di figli con spina bifida dichiarò nel 2000
a Tolosa che l’esperienza genitoriale è positiva anche
se l’aspettativa di vita del bambino è di soli due
anni. Questo perché anche il dolore è un’esperienza
significativa e nessuno di loro si è detto disposto a cancellarla.
Il problema non è la salute, ma l’accoglienza del ‘com’è’
e non del ‘come potrebbe essere’”.
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