L'ORA DI RELIGIONE
di Davide Cassarini
per
gentile concessione di "Milizia dell'Immacolata"
"Mi guardo indietro,
e mi accorgo che insegno religione da oramai diciotto
anni:
un periodo lungo, che quasi mi desta meraviglia.
In altri tempi, mi sarei addirittura trovato alle soglie
del pensionamento minimo
(i famosi diciannove anni, sei mesi e un giorno
).
Inevitabili, sorgono domande.
Per esempio: che significa, oggi, insegnare religione
cattolica nelle scuole pubbliche? Ma soprattutto: che
ne ho fatto di questi anni,
che significato ha avuto e ha ancora la mia esperienza
oramai quasi ventennale?".
L'ordinamento scolastico
Le vicende e le ragioni che
hanno condotto all'esistenza della insegnamento della
religione nelle scuole sono note, e non voglio certo scendere
nei dettagli. Entrata nelle scuole col concordato del
1929, la sua presenza è stata ribadita dal concordato
del 1984, e precisata dalla successiva intesa. In sostanza,
poiché lo Stato italiano riconosce che il cristianesimo
è patrimonio culturale fortissimo del popolo italiano,
siano i suoi membri credenti oppure no, si ritiene che
la religione cattolica, come fattore culturale cui tutti
ci richiamiamo, debba rientrare fra le materie che concorrono
alla formazione degli studenti.
La presenza dell'ora di religione in ogni ordine e grado
di scuola (dalle materne all'ultimo anno di scuola superiore)
è quindi obbligatoria e assicurata dallo Stato;
facoltativa ne è invece la frequenza, per evidenti
motivi di coscienza. Il vescovo nomina il docente, indicando
la scuola nella quale esplicherà la propria attività,
lo Stato accetta la nomina, e assume il docente, che dopo
un certo numero di anni viene retribuito come i docenti
di ruolo delle altre materie.
Quando cominciai ad insegnare,
proprio nel 1984, tutti gli studenti si avvalevano: che
io ricordi, si esoneravano soltanto i testimoni di Geova
(nel mio primo anno, in un istituto tecnico, ne incontrai
parecchi). La frequenza era praticamente obbligata, quasi
nessuno pensava all'esonero, perché non c'erano
moduli da compilare al momento dell'iscrizione. Era automatico
e scontato "fare religione".
Con l'intesa del 1985, si è tutti su un piano di
parità: agli studenti viene chiesto, in pratica
ogni anno, se intendono o no frequentare l'insegnamento
apposito, e a chi opta per il no, si offrono varie possibilità,
dalla materia alternativa, allo studio individuale in
un'aula apposita, al nulla, ossia la libertà di
uscire in anticipo, o di andare a spasso, o di bivaccare
stancamente nei corridoi, aspettando lo scorrere dell'ora.
E spesso, questa opzione poco motivante, avvilente, è
la più attraente per studenti cui il sistema educativo
non sa offrire altro che venire incontro alla loro pigrizia
mentale. Di questo vuoto, noi insegnanti, impegnati a
trasmettere valori ed educazione, ci lamentiamo impotenti
oramai da vari anni.
Qui sta, a mio avviso, l'anello più debole di un'Intesa
fra Stato e Santa Sede che per altri versi mi pare soddisfacente.
Questa è forse la maggiore difficoltà con
la quale dobbiamo fare i conti: spesso capita di perdere
lungo gli anni, studenti che preferiscono ai colloqui
e alle riflessioni che offriamo, il nulla che lo fa rimanere
nel guscio delle proprie convinzioni, e lo priva di un
utile confronto.
Questa, in grande sintesi,
la cornice oggettiva nella quale tutti i ventimila docenti
di religione italiana, preti e laici, si muovono. A ognuno
di noi spetta poi dipingere il quadro, conoscendo i programmi
ministeriali (proprio in questi anni la CEI ha varato
nuovi programmi, profondamente innovativi) e avendo un
diploma di teologia che ci assicura una robusta conoscenza
dei contenuti che andiamo a trasmettere. Fin qui, nulla
di particolare: cultura specifica, capacità di
aggiornamento, conoscenza dei programmi sono caratteristiche
richieste ad ogni buon docente di qualsiasi materia.
Una materia "diversa"
Ma c'è un valore aggiunto,
e qui sta lo specifico della nostra materia. E qui sta
anche, se mi si permette, la ragione più profonda
della mia scelta esistenziale di insegnare religione,
e di continuare a farlo nel tempo, mentre tanti miei colleghi,
molto capaci, hanno preferito passare a insegnare italiano,
filosofia e altro. Il surplus che ci caratterizza sta
nel fatto che per insegnare latino, la fede non è
requisito essenziale, per insegnare religione invece,
assolutamente sì.
È dunque un modo, almeno tale io lo sento, per
essere quotidianamente alla sequela di Gesù. Ho
sempre sostenuto, anche contro l'opinione di altri amici,
che l'ora di religione non è affatto come tutte
le altre. A mio modo di vedere, la sua specificità
non è dovuta soltanto a fatti indubbi quali l'impossibilità
di dare voti, di affibbiare debiti, di effettuare verifiche,
orali o scritte che siano, tali da determinare poi il
profitto finale (chi può scendere sotto la sufficienza
a fine anno in religione?).
Certo, queste sono caratteristiche che ci rendono diversi
agli occhi dei ragazzi, ma la diversità dovrebbe
stare soprattutto dentro di noi; se siamo seguaci di Cristo,
e prendiamo sul serio questa condizione esistenziale,
essa sarà come un fuoco che ci spinge a comportarci
in maniera non sempre corrispondente alla trita normalità
della vita scolastica. Noi possiamo, insomma, e a volte
dobbiamo, andare oltre. Intendo dire che al centro del
nostro stare a scuola non ci sarà tanto il programma
o adempimenti di fine quadrimestre come il voto, ma il
ragazzo, la ragazza, la persona, insomma.
A tutti penso siano note le
parole iniziali di quello splendido documento del Concilio
che è la Gaudium et Spes: "Le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure
le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente
umano che non trovi eco nel loro cuore". Queste parole
le sento come la carta costituzionale del mio essere insegnante.
Mandato dalla Chiesa, mi sento chiamato a cercare di trasmettere
la speranza generata da Cristo a quanti incontro nel mio
cammino. E non c'è umanità più genuina,
più spontanea, degli adolescenti, le cui gioie
e sofferenze sono spesso così evidenti che non
possono non interpellare chi con loro passa una parte
significativa del proprio tempo.
Un'avventura umana che sempre si rinnova
Insegnare religione significa
insomma essere immessi con forza a contatto con gli affascinanti
e delicati mondi degli studenti; non si può stare
a guardare, ci si deve buttare, anche se le acque a volte
sono agitate. E il compito è tanto più intenso,
quanto più se si considera che una cattedra, per
la nostra categoria, comprende fino a diciotto classi.
Nel mio caso, significa avere circa trecento alunni, quattro
sezioni diverse, decine di colleghi con i più vari
orientamenti religiosi e di pensiero.
Una rete vastissima di rapporti,
che continuamente interpella la mia umanità di
persona redenta da Cristo che a sua volta deve, nel suo
piccolo, secondo le proprie deboli forze, offrire redenzione
agli altri. Sempre per citare testi del Concilio Vaticano
II, se è vero che compito dei laici è "cercare
il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole
secondo Dio" (Lumen Gentium, 31), non credo che,
per mia naturale vocazione, avrei potuto trovare campo
più adatto, per espletare questo impegno, del campo
scolastico-educativo.
Si tratta per me di un'avventura umana che sempre si rinnova,
durante la quale ho conosciuto tanti ragazzi che hanno
lasciato tracce profonde nella mia vita spirituale. Con
alcuni di essi sono tuttora in contatto, e forse il frutto
visibile più bello (dei frutti invisibili ovviamente
non riesco a parlare, e anche questo è il fascino
del mestiere di educatore) è stato un gruppo biblico
nato con gli studenti e per loro, che anche oggi continua,
di tanto in tanto. Dall'incontro umano si genera anche
l'incontro con la Parola di Dio, che è poi il fondamento
di tutto.
Certo, non mancano le difficoltà.
Oggi, a mano a mano che "invecchio", il divario
di età mi porta ad avere alunni che potrebbero
essere miei figli, e si sa che quello che dicono i padri,
per un motivo o per l'altro, viene spesso pregiudizialmente
rifiutato. Tra ciò che posso offrire (non a caso
insisto su questo verbo, perché il rischio di voler
imporre è sempre presente), e ciò che i
miei studenti vogliono raccogliere, spesso c'è
un solco profondo, e talvolta mi avviene di sentirmi un
po' inutile, o peggio, impotente di fronte a certe situazioni.
Ma anche la sconfitta educativa, anche la debolezza, a
ben guardare, sono una dimensione ben presente nella Parola
di Dio.
Laddove si vedono solo successi, scatta il peccato di
orgoglio, di pensare di essere bravi. Non è il
mio caso, almeno spero: nella mia incapacità, attraverso
le delusioni che talvolta segnano il mio cammino, porto
la mia croce quotidiana, ma nel contempo sento di portare
anche quella dei miei studenti, partecipando alle loro
sofferenze e gioie, e posso così sperare di vivere,
comunque sia, in fedeltà al Vangelo che nelle classi
ogni giorno tento di proclamare.
Davide Cassarini