La follia del nichilismo «liberale»
in Richard Rorty
di Irene Giurovich
A mio padre, prof. Giancarlo Giurovich
Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si
nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria.
Il fine del filosofo postmetafisico è proprio
quello di eliminare le opinioni che divergono dalle
proprie e di allontanare fisicamente quanti non accettano,
in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista.
In quanto filosofo relativista, le idee di cui si
fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle
del relativismo antico: inesistenza di una natura
umana, inconcepibilità di valori oggettivi,
assenza della verità. Salvo però poi
spacciare il suo punto di vista come la verità,
tradendo così l'illiberalità e la «follia»
di un progetto liberale solo a parole.
1.
Premessa
fondamentale del manifesto rortiano è la messa
in parentesi di tutti gli argomenti cardine della
filosofia:
Noi ora abbiamo bisogno di mettere
tra parentesi molti temi canonici dell'indagine filosofica;
ai fini della teoria sociale possiamo mettere da parte
temi come quelli relativi ad una natura umana astorica,
alla natura dell'io, al movente del comportamento
morale e al significato della vita umana. Consideriamo
questi temi come altrettanto irrilevanti per la politica,
quanto Jefferson pensava che lo fossero i problemi
relativi alla trinità e alla transustanziazione.
1
Affermare questo significa non poter approntare rimedi,
allorquando una società deve punire i crimini
per ribadire l'offesa alla dignità della persona.
Non porsi il problema del significato della vita umana
implica una giustificazione di qualsiasi uso della
persona. Non porsi il problema del movente del comportamento
morale implica l'equivalenza tra comportamenti morali
e immorali che hanno inevitabilmente una ricaduta
nel sociale. Su questa base si fonda la società
rortiana. Una società tanto più apparentemente
laica e liberale quanto più concretamente dittatoriale.
Infatti chi non si accoda al pensiero debole dei postmetafisici
non solo è bollato come pazzo, ma non ha neanche
il diritto di chiamarsi cittadino di una democrazia
liberale. Tutti quelli che, come Ignazio di Loyola,
ragionano in termini di natura umana, 2
di oggettività dei valori e di bene comune
sono pazzi:
Noi eredi dell'Illuminismo pensiamo di persone simili
che sono pazze. Questo avviene perché non c'è
modo di considerarle come concittadini della nostra
democrazia costituzionale, come persone i cui progetti
di vita potrebbero, con un po' d'ingegno e di buona
volontà, essere adattati a quelli degli altri
cittadini. Essi non sono matti perché hanno
frainteso la natura astorica dell'essere umano. Sono
matti perché i confini della sanità
mentale sono istituiti da quello che noi possiamo
prendere sul serio. 3
L'illiberalità della tesi
rortiana è concentrata tutta in queste sconvolgenti
parole che manifestano il dogmatismo di una posizione
non solo chiusa a qualunque confronto ma anche capace
di generare odi insuperabili sul piano filosofico
e politico. È raro trovare nella storia della
filosofia posizioni autoritarie, e per di più
non argomentate, come questa. Con chi sostiene dunque
l'esistenza di un ordine naturale, non è possibile
alcuna intesa. E dal fatto che con queste persone
è irrealizzabile una qualunque convergenza,
scaturisce la taccia di pazzia 4
e di esclusione (forzata?) dal consorzio civile. In
una democrazia liberale in cui, in teoria, si dovrebbe
salvaguardare il diritto di esistenza di ogni opinione,
pur non entrando nel merito della sua giustezza, nei
fatti, si discrimina tra opinioni vere e opinioni
false. Ma su che base? Come si può pretendere
che la posizione postmetafisica sia quella vera? Rorty
non lo dice. Non è neppure in grado di argomentare
una tesi in suo favore. Fatto questo giustificabile,
a suo dire, per la novità del linguaggio che,
in quanto nuovo, non richiede argomentazioni. 5
Rorty ha un grande e palese torto: liberale com'è,
non prende neanche in considerazione l'ipotesi che
«gli altri», i pazzi, come li denomina,
possano rivolgergli un'analoga accusa. Gli «altri»
sono saldamente legati a un vocabolario obsoleto,
lui, invece, è promotore di un vocabolario
nuovo. Con questa pseudo-legittimazione Rorty crede
di allontanare le obiezioni.
2.
L'illiberalità della democrazia sognata dal
nostro autore si orienta verso esiti sempre più
totalitari, fino a riversarsi nella sfera privata.
Il liberalismo di Rorty si mostra sempre più
aggressivo, folle (potrebbero dire, in una vera società
liberale, e senza timore di essere cacciati, gli epigoni
di Loyola). L'assunto liberale della separazione tra
sfera privata e sfera pubblica viene sepolto dal «liberale»
Rorty per il quale il «progresso morale»
si realizza nell'incitare gli altri a burlarsi dei
problemi morali. 6 Una vera e propria
ingerenza nell'ambito privato (anche se non è
così per il Gargani, intento, nel commentare
Rorty, a rimarcare la non confusione o commistione
tra pubblico e privato) che porta alla dominazione
di un pensiero unico. Il deweyiano Rorty attacca così
la filosofia comunitaria e in genere quel pensiero
forte consapevole che, prima di parlare della società,
bisogna aver fondato le questioni sostanziali (valori,
comportamento morale, giustizia) annullate da Rorty
che vi sostituisce, sulla scia di Rawls, aleatorie
«questioni procedurali». Le convinzioni
sul che cosa fare per andare avanti scisse dalla riflessione
sostanziale conducono alla paralisi. Inevitabilmente
ciascuno seguirà le proprie personalissime
opinioni alle quali, rortianamente parlando, nessuno
potrebbe contrapporne di migliori.
Per superare questa situazione l'autore
chiama in causa tradizioni e valori condivisi, ma
non potendo fondarli sulle categorie di «oggettività»
ed «essenza», retaggio del vocabolario
metafisico rifiutato, dà luogo ad ulteriori
assurdità: in che modo un'opinione si è
potuta affermare sulle altre, divenendo tradizione
consolidata, dato che tutte, teoricamente, si equivalgono?
Ancorandosi a superficiali questioni procedurali,
la filosofia rortiana (o meglio la sua metodologia,
dal momento che la filosofia si trasforma, in Rorty,
da sapere fondativo a un genere discorsivo che segue
le mode del tempo) cade in contraddizioni così
evidenti da sgretolare man mano le basi della sua
società liberale. Se da un lato infatti Rorty,
portavoce di una solidarietà a senso unico,
riconosce lo status di vera società liberale
laddove non vengono praticate crudeltà, violenza
e fanatismo, dall'altro, con le premesse del suo pensiero,
non solo non è in grado di supportare questa
sacrosanta affermazione, 7 ma anzi
giustifica quelle società che praticano e praticheranno
crudeltà e violenza. Se «la convinzione
che la crudeltà è una cosa orribile,
non ha alcun sostegno teorico», 8
anche la convinzione che la crudeltà non è
una cosa orribile, non ha alcun sostegno teorico.
9 Allora, crudeltà e non-crudeltà,
violenza e non-violenza si equivalgono? Come si può
concepire che la crudeltà è il peggiore
misfatto senza avere convinzioni metafisiche su ciò
che è comune a tutti gli uomini in quanto portatori
di una universale dignità? Rorty potrebbe a
questo punto rispondere che, poiché viviamo
in un'epoca in cui si condannano violenza e crudeltà,
la nostra educazione è avvenuta in un contesto
nel quale la solidarietà (parola cara al lessico
dell'autore) primeggiava. Ma quando quest'epoca lascerà
il passo a un'altra epoca che non disdegnerà
l'uso della violenza e l'educazione verrà impartita
secondo questo parametro, quali argomenti teorici
Rorty sarà in grado di opporre? Nessuno. E
questo perché l'uomo con le sue abitudini,
secondo Rorty e i postmetafisici, è un prodotto
storico della società. 10
Cambia la Weltanschauung, cambiano gli uomini: «linguaggio,
coscienza e comunità sono prodotto del tempo
e del caso». 11
Secondo questa prospettiva, dunque,
gli scempi che la storia ci ha mostrato e ci mostrerà
sono legittimabili con il ricorso a «diverse
convinzioni» che hanno così indirizzato,
e indirizzeranno, gli uomini a commettere prevaricazioni
e misfatti. 12 È a questo
punto evidente che, se non ci si riferisce al valore
oggettivo della persona umana e al vero comportamento
morale, assoluto, atemporale, e quindi capace di stigmatizzare
le devianze della storia, i risultati cui si giunge
sono quelli relativistici di Rorty, il quale non sa
fondare la sua solidarietà e non può
evitare (in quanto, secondo lui, è la storia
a determinare i principi mutevoli dell'uomo e non
l'uomo, con la sua ragione universale, ad orientare
la storia) la messa in atto di violenze e crudeltà
da parte di epoche dotate di altre convinzioni e altri
«valori». Se la natura umana (norma ontologica
fondamentale) viene assoggettata ai capricci della
storia e la ragione (strumento conoscitivo della ratio
boni vel mali delle azioni) segue il costume del tempo,
neppure Rorty potrebbe riaffermare la tanto voluta
solidarietà, termine di un vocabolario appartenente
a un'era storica destinata ad essere superata. Mutano
le convinzioni, mutano anche i vocabolari 13
che influenzano l'uomo. Lo ammette lo stesso Rorty,
14 pur andando, in alcuni passi,
contro i suoi stessi assunti della variabilità
di vocabolari e convinzioni. 15
Gli esiti infausti di una simile teoria portano così
a distinguere tra vocaboli (come solidarietà)
che hanno intessuto di sé un'epoca, e vocaboli
che, pur non facendo parte del dna dei liberali (come
crudeltà, etc.), intessono, e intesseranno,
altre epoche. La contingenza del linguaggio, incipit
dell'opera La filosofia dopo la filosofia, equivale
alla contingenza dell'io, della natura umana, delle
convinzioni. Mai assolute, mai definitive, ma sempre
in fieri. E, proprio per questo, soggette a un divenire
storico che invece dovrebbero guidare. Per il fatto
che una convinzione si diffonda in un certo periodo
storico, non significa che sia giusta. Per il fatto
che un comportamento impregni di sé il costume
in un dato momento storico, non significa che sia
buono. Rorty non l'ha capito, e per questo la sua
costruzione di una società liberale solidale
si presta a dare liceità, come abbiamo dimostrato,
a quelle società crudeli e violente che potranno
contare sulla «normale» alternanza delle
credenze e sull'assenza di una condanna teorica (fondata
sulla riflessione della dignità della persona
umana) della crudeltà e dell'umiliazione.
3.
L'aspetto davvero interessante, in
parte già abbozzato, è quello di analizzare
più a fondo come la stessa società liberale
teorizzata da Rorty, che dovrebbe essere solidale,
abbia in sé stessa i germi dell'umiliazione
e della prevaricazione, intesi in senso lato. La società
rortiana non può che trasformarsi in una eterna
guerra di tutti contro tutti. Ciò è
evidente, se si ricorda l'accusa di pazzia e la conseguente
affermazione di considerare gli oggettivisti come
non concittadini della democrazia costituzionale.
Non è questo già l'apice della prevaricazione
e dell'umiliazione? I liberali, poi, non dovrebbero
essere per l'autore «quegli individui che più
di qualunque altra cosa hanno paura di essere crudeli»?
16 A parole, Rorty si fa alfiere
di una verità che si impone tramite confronti
liberi e libere discussioni: «una società
liberale è tale in quanto si contenta di chiamare
«vero» (o «corretto», oppure
«giusto») l'esito di una comunicazione
non distorta, qualunque esso sia, cioè qualunque
punto di vista che risulti vincitore da uno scontro
libero e aperto». 17 Ma questa
posizione mal si concilia con le condanne mosse agli
oggettivisti, con i quali non è ammissibile
alcun confronto. E quand'anche ci fosse, non si potrebbe
giungere, come abbiamo visto, ad alcun terreno comune.
Sorge il sospetto che lo scontro libero e aperto possa
avvenire tra chi la pensa più o meno allo stesso
modo, dal momento che gli «altri» (metafisici
o oggettivisti) sono esclusi.
Dal relativismo conoscitivo e morale che caratterizza
il nostro autore deriva la relatività dell'essere
umano e, poiché tutto è contingente,
la relatività dello stesso concetto di solidarietà.
Eppure Rorty la intende come ciò che è
«al di là della storia e delle istituzioni»,
18 tradendo così un bisogno
di assolutezza e atemporalità che però
il suo sistema non è in grado di garantire.
Infatti, per poter fare ciò, l'unica strada
sarebbe quella di tornare alla natura umana 19
e al suo valore intrinseco. Risulta pertanto estremamente
difficoltoso capire su che pilastri Rorty poggi «il
dovere morale di sentirci solidali con tutti gli altri
essere umani». 20 Non è
tutto contingente e fondato su un temporaneo consenso?
Quello che oggi è considerato come un dovere
morale, domani potrebbe non esserlo più.
E arriviamo alla guerra di tutti
contro tutti, che scaturisce proprio dalla teoria
univoca e contraddittoria della solidarietà.
Si delinea o una società di solidarietà
parziali 21 (ma allora come si
potrebbe decidere, in un pullulare di opinioni escludentisi,
il che cosa fare per andare avanti?) o una società
con tante solidarietà a seconda degli individui,
o una società in cui si è riusciti ad
allontanare i pazzi, vero ostacolo per una solidarietà
a senso unico (in questa ipotesi però la presunta
liberalità si sarebbe ottenuta con la prevaricazione).
La solidarietà del noi si contrappone infatti
a un loro di facile identificazione: «affermo
che noi ha, di norma, una valenza contrappositiva,
nel senso che si contrappone a un loro fatto anch'esso
di essere umani... di quelli sbagliati». 22
Il fatto è che la solidarietà, essendo
un prodotto della storia 23 ed
essendo creata 24 e non riconosciuta,
presta il fianco a qualsiasi strumentalizzazione:
tante solidarietà quante quelle che la storia
produce, tante «solidarietà» tra
gruppi (anche eversivi o maniaci) appartenenti a una
stessa società. In quest'ultimo caso, Rorty
non avrebbe alcun mezzo per salvaguardare la sua solidarietà,
seppur parziale perché esplicantesi nella cerchia
ristretta del noi, dalla coesistenza simultanea delle
sopracitate «solidarietà». E ciò
si giustifica ricorrendo alla creazione, arbitraria
e contingente, della solidarietà. Gli scenari
che ora si squadernano sono due: una società
«liberale» solidale con il pensiero dominante
(che oggi è la solidarietà, domani potrebbe
essere la crudeltà) e in grado di debellare
la sfera del loro; o una società in cui le
solidarietà sono così numerose e diverse
da determinare uno stallo istituzionale.
4.
L'etnocentrismo (filosofico e politico)
che emerge dai testi dell'autore dà un colpo
definitivo al liberalismo e alla solidarietà
rortiane: «Essere etnocentrici significa suddividere
la razza umana nelle persone a cui si devono giustificare
le proprie credenze e tutti gli altri. Il primo gruppo
-- il proprio ethnos -- include coloro che condividono
con noi un numero sufficiente di credenze da rendere
possibile la conversazione fruttuosa» .25
Ritorna, in queste parole, la demarcazione tra il
noi e il loro, la separazione tra i sani di mente
e i pazzi (i metafisici). Ma ora interviene un elemento
in più per dubitare della stessa alleanza,
o meglio solidarietà, tra i sani di mente (i
postmetafisici). Un elemento che, quand'anche -- con
l'allontanamento dei pazzi -- si concretizzasse, utopisticamente,
una società liberale costituita da soli individui
«sani», minerebbe, e molto, questa stessa
società apparentemente tranquilla e omologata.
Questo elemento è fornito dall'utilitarismo
liberale: «coloro che desiderano ridurre l'oggettività
alla solidarietà -- chiamiamoli pragmatisti
-- non necessitano né di una metafisica né
di un'epistemologia. Essi concepiscono la verità
come ciò che ci è utile credere».
26 Quindi la solidarietà
tra i «sani», i «pragmatisti»,
i «liberali» potrebbe spezzarsi a causa
delle diverse aspirazioni, inevitabilmente varie e
opposte, di ciò che è utile. Quindi,
non solo è improponibile (a causa dell'irraggiungibilità
di un'intesa) una società in cui anche i pazzi
abbiano una collocazione, ma anche la società
liberale, depurata dai loro, mostra i suoi lati deboli
che potrebbero portare a un collasso. Infatti non
si potrebbe giungere all'accordo sul che cosa fare
per andare avanti, considerata la molteplicità
delle visioni dell'utilità.
L'utilità, cui viene sottomessa la verità,
cade così nelle stesse ambiguità e contraddizioni
della solidarietà. L'utilità-verità
è all'origine del dissolvimento della società
liberale così come la «solidarietà»
era la causa sia di un atto prevaricatore e continuato
(l'espulsione dei pazzi) sia di una società
che, in quanto articolata comunque in molteplici «solidarietà»,
risulta ingovernabile secondo le «questioni
procedurali».
5.
Forse, le contraddizioni e, alle
volte, le assurdità del pensiero rortiano,
sono gli esiti diretti del rovesciamento soggetto-oggetto
(è la storia che, con le sue mutevoli mode,
plasma l'uomo), della teorizzazione di un io che deve
liberarsi dai bisogni metafisici e della mancanza
di una fondazione razionale della verità, dell'oggettività
e della solidarietà. Paradossalmente la società
«liberale» solidale rortiana risulta,
com'è emerso, autoritaria, prevaricatrice e
giustificatrice -- tramite il ricorso a storicismo
e mutabilità dei vocabolari linguistici --
di parametri che includono crudeltà e umiliazione.
A rimetterci è sicuramente tutto l'assetto
politico liberale con l'assunto della separazione
tra pubblico e privato, ma ancora di più è
l'uomo, il grande sconfitto. Dai testi rortiani emerge
un individuo freudiano (non a caso in più occasioni
Rorty elogia questo pensatore 27)
tutto intento nel ricercare la sua utilità
e il suo benessere, sdivinizzato (che significa disinteressato
alle «questioni sostanziali») e naturalmente
psicolabile. 28 Secondo questa
pericolosa rappresentazione del «vero»
uomo, tutte le altre posizioni, quelle metafisiche
o oggettive che invece delineano un uomo desideroso
di porre dei punti fermi indipendentemente dal mutare
delle abitudini e delle convinzioni storiche, vengono
tacciate di pazzia.
Ma a parte l'incongruenza rortiana di elogiare l'uomo
freudiano (egoistico) così dissimile, almeno
teoricamente, dall'uomo liberale solidale, ciò
che conta è considerare se davvero l'uomo sia
tale quale Rorty l'ha descritto: indifferente a qualsiasi
speranza e indifferente a qualsiasi problema conoscitivo.
29 Non è sicuramente così
l'uomo reale. Sorge il fondato sospetto che l'analisi
rortiana poggi sulla concezione di un uomo inesistente,
astorico, che per di più vorrebbe, secondo
Rorty, autocrearsi indefinitamente, pur essendo limitato
dal contesto storico in cui si trova e da cui assorbe
le convinzioni e tradizioni del tempo.
Bisogna, a mio avviso, ripensare sia la libertà
«positiva» (al cui posto Rorty pone un'inconcludente
libertà «negativa») sia l'uomo
reale, come effettivamente è, e non come si
vorrebbe che fosse esclusivamente per poter creare
una società che poi mostra non pochi lati oscuri
e dittatoriali. In questo contesto l'insegnamento
kantiano, con le tre domande inscritte nel cuore di
ogni uomo, deve costituire il punto d'avvio per riflettere
sull'uomo concreto: Was kann ich wissen? Was soll
ich tun? Was darf ich hoffen? L'uomo reale non può
non porsi queste domande, ma riconoscere ciò
significherebbe dare un ulteriore scossone all'impianto
rortiano che ha come presupposti, è bene ricordarlo,
l'idea di un io privo di centro e l'inconsistenza
di qualsiasi domanda metafisico-conoscitiva. Se, infine,
si pensa a quanta parte occupa il caso nell'impianto
generale, risulta ancora più incomprensibile
l'intero progetto dell'autore che pretenderebbe invece
di intervenire sul caso per indirizzarne il corso.
Se tutto è caso e contingenza, la progettualità
è assurda. Se tutto è caso, contingenza
e mutevolezza, le stesse separazioni tra pazzi e sani,
crudeltà e solidarietà non hanno alcun
valore in quanto soggette esse stesse al caso.
Ma invano, anche di questo assunto -- tutto è
caso -- cercheremmo nell'autore una dimostrazione.
Copyright © 2001 Irene Giurovich
Note
1. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, in Scritti filosofici,
tr. it. a cura di A.G.Gargani, 2 voll., Roma-Bari,
Laterza, vol.1, 1994, vol. II 1993; vol.I p. 242;
l'errore di Rorty consiste nell'equiparare le questioni
fondative a questioni religiose, non distinguendo
che un'analisi metafisica non significa analisi religiosa:
Cfr. La filosofia dopo la filosofia, tr. it., a cura
di A. G. Gargani, Roma-Bari, Laterza, 1998 (ed. or.
1989), p. 30: «Gli argomenti dei filosofi del
linguaggio e della scienza dovrebbero essere visti
sullo sfondo dell'opera degli storici intellettuali,
di quegli storici che, come Hans Blumemberg, hanno
cercato di individuare somiglianze e differenze tra
l'Età della fede e l'Età della ragione.
Essi hanno sottolineato (...) che l'idea che il mondo
o l'io abbiano una natura intrinseca (...) è
un residuo della concezione del mondo come di una
creazione divina, l'opera di qualcuno che aveva in
mente qualcosa e che parlava Egli stesso il linguaggio
col quale descriveva il Suo disegno. Solo se si ha
un'immagine di questo genere, se si concepisce l'universo
come una persona o la creazione di una persona, si
può pensare che il mondo sia dotato di una
natura intrinseca». 
2. Ivi, p. 253: «Presuppongo
infatti che una persona sia libera di allestire il
modello dell'io che più le è consono,
per adattarlo alla propria politica, alla propria
religione o al proprio personale senso del significato
della propria vita. Ciò presuppone a sua volta
che non esista alcuna verità oggettiva come
soluzione al problema di che cosa sia realmente l'io
umano». Vedi La filosofia dopo la filosofia,
cit., p. 11: «Quello che ci voleva, e che gli
idealisti non potevano concepire, era che si rifiutasse
l'idea stessa di un qualcosa -- mente o materia, io
o mondo -- dotato di una natura intrinseca da esprimere
o rappresentare» e La priorità della
democrazia sulla filosofia, cit., p. 252: «raccomando
l'immagine dell'io come una rete priva di centro e
contingente a coloro che hanno analoghi gusti e identità».
Cfr. anche La filosofia dopo la filosofia, cit., p.
91, nel contesto della contrapposizione tra ironici
(i veri liberali secondo l'autore) e metafisici (i
sostenitori della tradizione oggettivista): «L'ironico,
al contrario, è nominalista e storicista. Per
lui niente ha una natura intrinseca, un'essenza. Perciò
non crede che la presenza di termini come giusto,
scientifico o razionale nel vocabolario decisivo del
momento sia una buona ragione per pensare che la ricerca
socratica dell'essenza della giustizia, della scienza
o della razionalità potrà portare molto
oltre i giochi linguistici del tempo». 
3. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, cit., p. 248. 
4. Ivi, p. 251: «giungiamo
a questa conclusione [che Nietzsche e Loyola sono
matti] soltanto dopo che numerosi tentativi di scambio
delle opinioni politiche ci hanno fatto rendere conto
che non approderemo a nulla». 
5. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, p. 16: «La filosofia più
interessante non è quasi mai quella che esamina
i pro e i contro di una tesi ma quella, di solito,
che rappresenta, implicitamente o esplicitamente,
la competizione tra un vocabolario accettato che è
diventato una seccatura e un vocabolario nuovo, non
ancora completamente articolato, che promette vagamente
grandi cose»; vedi anche ivi, p. 106, dove si
afferma che i liberali non sono tenuti a giustificare
le loro convinzioni, in quanto il termine «argomentare»
appartiene al vocabolario dei metafisici: «essi
[i liberali] non avrebbero bisogno di giustificare
il proprio sentimento di solidarietà con gli
altri uomini, perché non sarebbero stati educati
al gioco linguistico in cui si chiede e si dà
giustificazione per quel tipo di convinzione».
6. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, cit., p. 254: «Se
l'identità morale di una persona consiste nell'essere
cittadino di un sistema di governo liberale, incoraggiare
la frivolezza servirà ai suoi fini morali.
L'impegno morale, dopo tutto, non richiede di prendere
sul serio tutti i problemi che sono presi sul serio,
per motivi morali, dai propri concittadini. Può
richiedere esattamente il contrario. Può richiedere
il tentativo di burlarsi dei propri concittadini per
liberarli dall'abitudine di prendere troppo sul serio
argomenti di questo tipo». Cfr. anche, per quanto
riguarda l'ingerenza della filosofia rortiana nel
privato, La filosofia dopo la filosofia, p. 58 e p.
59: «Il culmine del processo di sdivinizzazione
(...) sarebbe idealmente raggiunto nel momento in
cui noi non riuscissimo più a trovare di alcuna
utilità l'idea che esseri umani dall'esistenza
contingente, finiti, mortali possano trovare il significato
della loro vita in qualcosa che non siano altri essere
umani finiti, mortali, dall'esistenza contingente»;
«lo scopo della cultura in questo tipo di società
dovrebbe essere quello di guarirci dal nostro profondo
bisogno metafisico». 
7. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, p. 250: «Il
rifiuto di discutere ciò che un essere umano
dovrebbe essere, sembra denotare un certo disprezzo
per lo spirito di compromesso e di tolleranza che
è essenziale alla democrazia. Ma non è
chiaro come argomentare in favore della tesi che gli
esseri umani dovrebbero essere liberali piuttosto
che fanatici senza essere ricondotti a una teoria
della natura umana, alla filosofia. (...) Dobbiamo
sostenere fermamente che non è necessario rispondere
ad ogni argomento nei termini in cui viene presentato».
8. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, cit., p. 4. 
9. Ivi, p. 217: «Poiché
insistiamo sulla contingenza, e quindi combattiamo
idee come quelle di «essenza», «natura»
e «fondamento», per noi è impossibile
pensare ancora che alcune azioni e determinati atteggiamenti
sono per natura «disumani». 
10. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, cit., p. 263, nota
39: «L'unità essenziale dell'io che è
in questione qui è semplicemente il sistema
di sentimenti morali, di costumi, e di tradizioni
interiorizzate che è tipico del cittadino politicamente
consapevole di una democrazia costituzionale. Questo
io è, ancora una volta, un prodotto storico».
11. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, cit., p. 32. 
12. R. Rorty, La priorità
della democrazia sulla filosofia, cit., p. 258, nota
11: [Rorty è d'accordo con Rawls nel dichiarare
quanto segue:] «Dobbiamo concedere che, al cambiare
delle credenze radicate, è possibile che cambino
ugualmente i principi di giustizia che sembra razionale
scegliere». 
13. R. Rorty, Ivi, p. 250:
«Assumere questo punto di vista [cioè
che "compromesso e tolleranza non devono essere
portati fino al punto di essere disposti a lavorare
all'interno di qualunque vocabolario il nostro interlocutore
voglia usare"] è tutt'uno con l'abbandono
dell'idea che un singolo vocabolario morale e un singolo
insieme di credenze morali siano appropriati per ogni
comunità umana, in ogni parte del mondo, e
significa ammettere che gli sviluppi storici possano
condurci semplicemente ad abbandonare le questioni
e il vocabolario con cui queste questioni vengono
formulate». 
14. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, cit., p. 14: «Se potessimo
adattarci all'idea (...) che la persona umana è
creata dall'uso di un vocabolario, allora avremmo
finalmente fatto nostro quel che c'era di vero nella
convinzione romantica che la verità è
costruita piuttosto che scoperta». 
15. Ivi, p. 124: «il
teorico ironico non riesce neppure a immaginarsi dei
successori; egli è il profeta di una nuova
era, un'era in cui nessuna parola usata in passato
sarà mai più impiegata». 
16. Ivi, p. 220. 
17. Ivi, p. 84; vedi anche
Ivi, p. 86: «affinché si possa gradualmente
sostituire il concetto di verità come corrispondenza
alla realtà con l'idea che verità è
la convinzione che si forma durante scontri liberi
e aperti». 
18. Ivi, p. 218: «Pure,
in determinati momenti, come ai tempi di Auschwitz,
quando la storia è in subbuglio e le istituzioni
e gli schemi di condotta tradizionali stanno crollando,
vogliamo qualcosa che sia al di là della storia
e delle istituzioni. Cos'altro potremmo trovare se
non la solidarietà umana, la reciproca consapevolezza
della nostra comune umanità?». 
19. Ivi, p. 221: «Quest'ultima
[la solidarietà umana] tuttavia non consiste
nella consapevolezza di un io centrale, l'essenza
umana, presente in tutti gli uomini». 
20. Ivi, p. 218. 
21. Ivi, p. 219: «il
nostro sentimento di solidarietà è più
forte quando colui a cui è rivolto è
considerato uno di noi, dove noi designa qualcosa
di più piccolo e geograficamente più
limitato dell'intera razza umana. Per questo dire
perché è un essere umano è un
modo debole e non convincente di spiegare un'azione
generosa». 
22. Ivi, p. 219. 
23. Ivi, p. 220: «la
mia prospettiva implica che i sentimenti di solidarietà
dipendono necessariamente dalle somiglianze e differenze
che consideriamo essenziali, e che queste a loro volta
sono messe in evidenza da un vocabolario decisivo
storicamente contingente»; cfr. anche nota 12.
24. Ivi, p. 225: «Il
modo giusto di interpretare quello slogan è
di considerarlo un invito a creare un senso di solidarietà
più esteso di quello che abbiamo al momento.
Il modo sbagliato è quello di considerarlo
un invito a riconoscere tale solidarietà, concepita
come qualcosa di preesistente. Perché in questo
caso lasciamo il fianco scoperto all'insulsa domanda
scettica: questa è vera solidarietà?».
25. R. Rorty, Solidarietà
od oggettività? in Scritti filosofici, vol.
I, cit., p. 40. 
26. Ivi, p. 31; cfr. anche
Ivi, p. 32: «il pragmatista afferma che non
c'è nulla da dire sulla verità se non
che ciascuno di noi raccomanderà come vere
quelle credenze che reputa utili credere». 
27. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, p. 41 e p. 44: «Possiamo
cominciare a comprendere il ruolo di Freud nella nostra
cultura vedendo in lui il moralista che contribuì
a sdivinizzare l'io riconducendo la coscienza alle
sue origini nei fattori contingenti dell'educazione»;
«Freud ci invita a considerare seriamente la
possibilità che non vi sia alcuna facoltà
principale, alcun io centrale, chiamata ragione».
28. R. Rorty, La filosofia
dopo la filosofia, cit., pp. 50-51: «A mio avviso
Freud ha sviluppato ulteriormente questo punto; egli
ci ha insegnato a vincere alcuni casi particolarmente
difficili di cecità mostrandoci la peculiare
idealità delle situazioni che rappresentano,
ad esempio, una perversione sessuale, un'estrema crudeltà,
una ridicola ossessione o un'allucinazione maniacale.
Ci ha insegnato a concepirle come poesie private del
perverso, del sadico o del folle, complesse e piene
di onesti ricordi come la nostra stessa vita. Ci ha
insegnato che non c'è soluzione di continuità
tra quello che per la filosofia morale è eccessivo,
inumano o innaturale e il nostro stesso modo di agire».
29. Ivi, p. 92: «Per
loro [gli ironici] lo scopo del pensiero discorsivo
non è conoscere, dove conoscere implica concetti
come realtà, essenza, punto di vista oggettivo
e corrispondenza del linguaggio alla realtà».

|