VERITA’ E TOLLERANZA NEL RINASCIMENTO
ITALIANO:
LA “ORATIO DE HOMINIS DIGNITATE” DI GIOVANNI
PICO DELLA MIRANDOLA
di Massimo Guizzardi

Introduzione: chi era Giovanni Pico
Ci rendiamo conto, nel presentare anzitutto a titolo
introduttivo la figura di Giovanni Pico della Mirandola,
un protagonista della vicenda del pensiero umano,
ingegno precocissimo, capace in soli trentun anni
di vita (11463-1494) di una produzione non poderosa
ovviamente ma originalissima e rivoluzionaria, indubbiamente
un protagonista assoluto del Rinascimento, di quanto
sia difficile districare la leggenda e la storia nel
porci di fronte alla sua fama.
Piuttosto che parlare qui della “memoria di
Pico” e del discutere se considerare attendibile
o no la leggenda che lo voleva capace di mandare a
memoria lunghi brani di classici italiani, greci o
latinis senza difficoltà, diremo che Pico,
rampollo di famiglia signorile di un ducato piccolo
nelle dimensioni ma finanziariamente prosperò,
rinunciò ad ogni pretese di dominio (ma per
essere realistici e sinceri, non alla terza parte
della eredità che divise coi suoi fratelli
e con la quale potrà ampiamente mantenersi
nella sua vita di “intellettuale a tempo pieno”)
per dedicarsi appunto allo studio.
La dinastia di cui faceva parte possedeva da circa
una cinquantina d’anni il titolo ducale; la
madre era zia del poeta Matteo Maria Boiardo, per
cui Giovanni respirò la cultura del suo tempo,
l’interesse verso i classici, fin dalla più
tenera età e anche se può sorprenderci
il fatto che i suoi primi studi a Bologna furono di
diritto canonico, lo vediamo poi spostarsi a Ferrara
che aveva già uno “studio” e soprattutto
una corte fra le prime per ricchezza di cultura del
Rinascimento, poi a Padova e infine a Parigi, a suo
tempo “Culla della Scolastica e ancora considerata
mecca dei teologi. E non dimentichiamo ovviamente
Firenze, dove Pico si recava frequentemente e si tratteneva
a lungo. Lo spazio di Giovanni erano dunque da un
lato le corti italiane, Mantova, Ferrara, Firenze,
dall’altro le più celebrate Università
del tempo. In questi ambienti erano presenti anche
intellettuali provenienti dall’ormai scomparso
Impero bizantino (risaliva al 1452 la caduta di Costantinopoli
in mano ai Turchi) che portavano con sé la
cultura a partire dai classici della letteratura e
del teatro fino a tutta la tradizione filosofica,
e anche la cultura araba, per la vicinanza geografica
con l’altra sponda del Mediterraneo e il Medio
Oriente. Presso le corti erano spesso presenti e tenuti
in grande rispetto sapienti ebrei. Pico apprese fin
da giovanissimo il greco, l’ebraico e il “caldeo”
(aramaico) Di questo eccezionale bagaglio culturale
di cui Pico intende fare la sintesi nel nome della
“Dignità dell’uomo” è
testimone appunto la “Oratio” dedicata
a questo tema.
Rinascimento e Umanesimo: centralità dell’uomo?
L’opera
che ci accingiamo a presentare, “operetta”
per l’ampiezza fisica ma non per la portata
culturale, costituisce dunque un “Vertice”
dell’umanesimo e del Rinascimento cioè
di quell’epoca, a cui è difficile fissare
limiti cronologici, che pone appunto l’uomo
al centro della sua attenzione. Ma questo è
proprio vero o è solo l’invenzione di
una certa parte del mondo culturale post illuminista,
mentre c’è chi ha parlato, ad esempio
Johann Hiuzinga, di “Autunno del Medioevo”
invertendo una concezione ritenute indiscutibile?
C’è poi il rinascimento del Burckardt,
l’amico di Nietzsche, contrapposto al Medioevo
tanto quanto quello del celebre studioso italiano
Eugenio Garin: l’uomo si pone al centro della
realtà e soprattutto si libera dal giogo della
morale cristiana (questo è evidente ad esempio,
nell’opera del Burckardt, nel capitolo dedicato
allo Stato Rinascimentale, dove, sulla scia di personaggi
come Machiavelli e Guicciardini, l’uomo di Stato,
il principe (Papi sovrani compresi) è visto
come colui che con la sua astuzia, il suo ingegno,
il sapiente dosaggio di diplomazia e violenza (intesa
questa sia nel senso di repressione che di guerra)
costruisce la sua autorità e la sua potenza.
Dall’altro lato però personaggi come
Savonarola, in Italia, Erasmo e Moro, di portata ancor
più universale, ci testimoniano di come l’aspetto
religioso sia ancora centrale; la predicazione di
Savonarola ha un peso notevolissimo, tanto da provocare
la cacciata, sia pure provvisoria, dei Medici da Firenze;
controverso poi è il fatto se la Repubblica
Savonaroliana di Firenze debba considerarsi un “regime
cristiano integralista” alla stregua, ad esempio,
della Ginevra di Calvino. Quanto ad Erasmo e a Moro,
è noto il loro anelito ad una pace universale
(anche nel senso di condanna esplicita della guerra
come fatto anticristiano, presente sia nell’Elogio
della pazzia di Erasmo che nell’”Utopia”
del Moro; ad una riforma della Chiesa e ad una riproposizione
dei valori cristiani; al dialogo con le altre religioni
e fra le diverse prospettive filosofiche.
Cose queste che troviamo anticipate in Pico proprio
nella sua “Oratio”; forse non in modo
altrettanto maturo (ma non dimentichiamo la giovanissima
età del protagonista, 24 anni appena, quando
stese questa operetta) egli stesso se ne rendeva conto
e chiedeva comprensione ai suoi interlocutori.
Questa differenza di vedute è anche centrale
per il problema che ci poniamo fin dal titolo, cioè
quello del rapporto tra fede in una Verità
rivelata e tolleranza. Nel XV secolo la fiducia nell’uomo
era tale da aver addirittura spodestato Dio dal suo
trono? A questa cruciale domanda non diamo immediata
risposta, ma lasciamo parlare anzitutto Giovanni Pico,
per vedere cosa pensava, a cavallo tra Quattro e Cinquecento,
l’uomo di sé stesso e del suo rapporto
con Dio e se per caso la domanda sopra citata non
vada spostata di almeno due secoli, dopo la rottura
della Cristianità occidentale operata dalla
Riforma e il corollario di guerre, persecuzioni e
compromessi che essa ha portato con sé.
L’”Oratio de hominis dignitate”
di Pico della Mirandola
Dignità e libertà dell’uomo
L’opera in questione, come appare già
dal titolo, si presenta come una “orazione”
che Giovanni Pico aveva intenzione di pronunciare
a Roma, in un “Concilio di filosofi” da
lui convocato e tenuto a sue spese, con l’intenzione
di giungere ad una “pace filosofica” che
nelle intenzioni dell’autore doveva essere anche
all’origine della pace civile e sancire la concordia
tra i diversi punti di vista culturali e, aspetto
che più ci interessa, tra le religioni.
L’iniziativa
di Pico, che non andò in porto ma che ci ha
lasciato traccia in questa opera fondamentale, si
colloca,m lo dicevamo, al vertice dell’Umanesimo,
in un periodo di relativa pace fra gli Stati italiani
e di intenso fervore culturale. Pico contava fra le
sue amicizie sia Marsilio Ficino che Savonarola. Da
poco si era concluso un Concilio quello di Basilea
poi spostato a Ferrara e Firenze che aveva fra i suoi
scopi l’unione con la Chiesa greca; intellettuali
provenienti dal caduto impero bizantino come Bessarione
e Pletone avevano aperto all’Occidente la conoscenza
integrale dell’opera platonica nel greco originale;
non ci vogliamo ripetere e sugli influssi arabi ed
ebraici (troviamo citato esplicitamente Maometto nell’Oratio,
un aspetto interessante questo anche nel clima attuale,
di non facili rapporti fra Occidente ed Islam) diciamo
su questi ritorneremo; possiamo dunque supporre che
Pico non sia d’accordo con Dante nel porre il
fondatore della religione musulamna all’inferno,
se lo cita come sapiente appartenente al “patrimonio
universale dell’umanità” diremmo
oggi, eppure non possiamo certo supporre che Pico
non conoscesse e stimasse l’Alighieri.
Ma ora lasciamo parlare direttamente Pico: partiamo
da una citazione che anche lo studioso Garin considera
centrale, per vedere se la possiamo interpretare nello
steso senso da lui datogli o diversamente:
“Il Creatore:... così gli parlò:
‘Non ti ho dato, o Adamo, né un posto
determinato, né un aspetto proprio, né
alcuna prerogativa tua, perché quei posti,
quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai,
tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga
e conservi:. La natura limitata degli altri è
contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai
da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio,
alla cui potestà ti consegnai’”
Secondo il Garin, che giudica questo brano, “di
altissimo valore teoretico” c’è
qui una cesura netta con la visione medievale che
pone l’uomo ad un determinato posto, sopra la
creature vegetali e animali, al di sotto di quelle
celesti. In realtà, a nostro avviso, si può
ritrovare qui una precisa eco biblica, di Siracide
15, 11-20 mentre in altri brani biblici, come nell’esegesi
del Salmo 8 fatta dalla lettera agli Ebrei (2, 5-11),
è in realtà il Cristo che è detto
superiore agli angeli. Ma non è estranea al
Medioevo la comparazione fra gli esseri celesti e
gli angeli nel senso avanzato anche da Pico, ossia
l’uomo è superiore all’angelo e
al demonio, più potenti di lui per facoltà,
perché può liberamente variare la sua
opzione fra bene e male nel corso della vita.
E’ da notare. Pico nella sua Oratio non inserisce
quasi nessuna citazione esplicita di autori; quella
di Maometto, “Chi si è allontanato dalla
legge divina diventa una bestia” è generica,
forse volutamente, come altre di autori classici,
e non cita mai esplicitamente la Bibbia pur facendovi
spesso riferimento. In una lettera privata dichiara
di dedicare sistematicamente alla lettura biblica
mezz’ora al giorno. Non possiamo trovare dunque
nel brano citato sopra, a nostro avviso, niente che
si distacchi dalla tradizione cristiana; è
vero che Pico subì una condanna di alcune delle
sue 900 tesi allegate alla Oratio che dovevano costituire
la base del simposio filosofico da lui promosso e
fu anche prigioniero dell’Inquisizione ma questo
fu destino in quell’epoca anche di santi.
Possiamo dimostrare, con altre citazioni, che l’ecumenismo
di Pico non sconfina mai nel sincretismo che gli è
stato da diversi autori attribuito. Tra l’altro
egli è esplicito anche in altre opere nella
condanna della stregoneria, vista come opera diabolica
e in questo è concorde con Paolo e con la pratica
esorcistica della Chiesa fino ad oggi; di giudizi
sull’opportunità o meno delle pratiche
repressive più estreme in uso a quei tempi
non troviamo menzione. Sappiamo però che sia
i suoi fratelli duchi di Mirandola che il nipote Gianfrancesco
pure duca seguivano la prassi consueta, fino al rogo.
Non si può chiedere a nessuno di estraniarsi
dall’epoca in cui è collocato. Figura
contrapposta allo stregone è il “mago”,
che nell’Oratio compare come indagatore della
natura e quasi antesignano del moderno scienziato;
questa distinzione del resto non era ancora chiara
e si trova in altri protagonisti del pensiero del
secolo successivo, ad esempio Campanella e soprattutto
Giordano Bruno.
Comunque, è chiaro per Pico dove deve tendere
l’uomo con la sua libera scelta, per elevarsi
a vera dignità:
“Disdegnamo le cose della terra... e abbandonando
tutto ciò che è del mondo voliamo alla
sede iperurania prossima alla sommità di Dio.
Là, come narrano i sacri misteri, Serafini,
cherubini e troni occupano i primi posti; di loro
anche noi, ormai incapaci di cedere ed insofferenti
del secondo posto, emuliamo la dignità e la
gloria. E se lo vorremo non saremo in niente ad essi
inferiori”.
In termini in parte desunti dal platonismo, in parte
dalla tradizione ebraico-cristiana, troviamo qui ribadita
l’idea centrale della filosofia cristiana medievale,cioè
che il fine ultimo dell’uomo è Dio, il
Cielo, la dimensione del soprannaturale. “Philosophiam
veritatam quaerit, theologiam invenit, religio possidet”;
su questo sintetico adagio del Mirandolano, che riassume
tutto il suo pensiero, qualsiasi medievale sarebbe
stato in accordo. Troviamo però, nel clima
del rinascimento, una prospettiva non più gerarchica
ma l’aperta affermazione della superiorità
dell’uomo, in quanto libero, su qualsiasi creatura,
anche angelica. Il confronto con tradizioni, quali
lo zoroastrismo e la Cabala, poco conosciute o tenute
in sospetto nel tempo della Scolastica, non deve far
perdere di vista che per Pico la fede vera è
una sola, quella cattolica in cui è stato educato.
Gli altri saperi e le altre filosofie e saggezze rendono
testimonianza della piena rivelazione raggiunta in
Cristo: è dovere del cristiano conoscerle e
tenerle nell’onore che meritano.
La pace filosofica
Sappiamo
che il Concilio di sapienti che Pico voleva convocare
a Roma doveva giungere a stabilire una collaborazione
più ampia fra le scuole filosofiche e letterarie,
in particolare quella della Sortbona di Parigi, ancora
legata alla Scolastica e quelle delle corti italiane,
che privilegiavano rispetto alla verità raggiunta
per disputa con regole logiche il bello letterario
e coltivavano l’indagine filologica sui testi
classici, e ciò da almeno un secolo. Ma l’anelito
alla pace perseguito da Pico non dimentica, come più
tardi Erasmo e Tommaso Moro, la lotta politica in
senso stretto e la sua conseguenza più grave,
la guerra: “Varia senza dubbio, o Padri, è
in noi la discordia; abbiamo gravi lotte interne e
o peggio che guerre civili, che solamente la filosofia
morale potrà del tutto sedare e comporre, se
ad esse noi vorremo sfuggire, se vorremo ottenere
quella pace che ci sollevi tanto in alto da collocarci
fra gli eletti del Signore”.
Già questo testo lo accenna, e un altro successivo
lo renderà ancora più chiaro; la pace
vera è infine un dono soprannaturale, che proviene,
prima ancora che dall’umano filosofare, pure
importante, da Dio stesso:
“Quindi se meglio provvedendo a noi invocheremo
la sicurezza di una pace perenne, essa verrà
e colmerà generosamente i vostri voti, e...stringerà
fra la carne e lo spirito un inviolabile patto di
santissima pace.” E’ vero che le citazioni
sono espunte e in questi brani si trovano frequentissimi
richiami filosofici: in particolare la filosofia “morale”
scienza del retto agire umano, è capitale per
il raggiungimento della concordia. Ma questa pace
“santa” “Donata” richiama
indubbiamente le letture evangeliche di Pico, il “Pacem
reliquo vobis, pacem meam do vobis” di San Giovanni
(14,27), la pace portata nelle case e nei villaggi
dai messaggeri inviati da Gesù. Come già
accennato, secondo il suo costume Pico non richiama
questo esplicitamente, ma si tratta senza dubbio di
ciò che prima di ogni altra fonte o conoscenza
lo ispira ad avanzare un’istanza di concordia
universale.
Conclusione
La
filosofia cerca la verità. la teologia la trova,
la religione la possiede. Questo itinerario disegnato
da Pico non è diverso da quello dei grandi
santi e mistici medievali e rinascimentali, almeno
fino al consumarsi del divorzio fra teologia, filosofia
e mistica. L’unità del sapere tradizionale
è ancora salvaguardata. Sappiamo che Pico non
era un santo, anzi fu protagonista del ratto di una
giovane donna che le fonti ci descrivono come avvenente
e di buona famiglia, Un giovane di bollente spirito,
insomma, non un asceta portato a mortificare le passioni,
nonostante le buone intenzioni formulate nelle sue
pagine e anche nell’Oratio. Un ingegno precoce,
forse portato ad una sintesi entusiastica ma immatura,
di un patrimonio culturale acquisito in breve tempo
e con una passione che trova pochi uguali nella storia.
La “pretesa” di volere già prima
dei trent’anni di età operare una sintesi
tra due filosofie tradizionalmente ritenute opposte
come platonismo e aristotelismo può essere
un segno di questa immaturità, che spinge a
mete verso le quali uno spirito più attempato
si dirigerebbe con cautela. Ma indubbiamente il suo
fascino, come pure la sua grandezza, sta nello spirito
ecumenico (proprio, è vero del suo tempo) che
lo anima nell’accostarsi alle diverse fedi,
alle filosofie, pronto ad un dialogo universale almeno
per quanto riguarda le culture del Mediterraneo e
del Vicino Oriente, che lo rende molto attuale. Sappiamo
che i voti suoi e dei suoi contemporanei non si adempirono;
la cristianità s divise per l’azione
dei Riformatori; i rapporti con l’Islam continuarono
a essere spesso conflittuali; ma il suo contributo
ad un mondo più pacifico, la sua proclamazione
alta della dignità dell’uomo fondata
sull’essere libera creatura di Dio ci dà
anche oggi una fonte di ispirazione sicura nel pensare
e nell’agire.
Massimo Guizzardi
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