Il Gilè di Dio
Cactus. Terra spinosa e arida. Vita dura ed
essenziale. Sotto un cielo che muta per le folate di un imprevedibile
vento si svolge la difficile vita dell'uomo. A volte questo cielo
tocca la terra con i colori dell'arcobaleno: cerchio di armonia,
manto di pace, carezza di energia che rinfranca e dona all'uomo
un raggio della laboriosa speranza, di quella speranza che sola
ne anima l'azione.
Della canzone di Ligabue mi ha colpito la descrizione
di Dio come di uno che indossa "un gran bel gilè".
Un indumento semplice e così bello da essere desiderato da
chi lo guarda, ma che subito gli lascia addosso l'amarezza della
delusione perché per una specie di avarizia del divino possessore
la gioia di quella bellezza non può essere né provata
né partecipata. Il gilè di Dio è per me l'arcobaleno
che adorna coi suoi colori le spalle del cielo. Una luce che in
effetti è irraggiungibile. Più ci avviciniamo e più
lui si allontana.
Un gilè non si può dire propriamente
un vestito e neanche un accessorio. Se si escludono i cacciatori,
i pescatori e i fotoreporter che ne hanno fatto, trasformandolo
con mille taschine, il loro emblema, si potrebbe definire abbastanza
superfluo. Un oggetto che aspira alla Pura bellezza, e cioè
a non avere una finalità pratica. Dire questo di Dio è
interessante perché lo eleva dalla sfera dell'interesse e
dell'utile per collocarlo in quella del "lusso", inutile
e gratuito. E' stato il teologo olandese Schillebeeckx a parlare
di Dio come del "lusso della vita". E' vero che Dio serve
ed è utile. Verissimo. Egli è il nostro eccelso "tabbabuchi".
Lo usiamo quando abbiamo bisogno e lo lasciamo appena siamo in grado
di muoverci da soli. Un tappabuchi ha però vita breve e può
al massimo essere rispettato ma non amato. L'amore non poggia sull'interessata
necessità ma su un'interessante gratuità. Sullo splendore
che incanta e non sulle catene della necessità; sulla Libertà
e non sulla costrizione.
Le risposte che cerchiamo a volte sono
nel volto del Dio vicino più che nelle parole di una formula.
Ma il Dio vicino è il Dio crocifisso, colui
che ha steso le mani per abbracciare il mondo. Per questo non lo
avvertiamo immediatamente, perchè lo cerchiamo e lo esigiamo
nella forma mondana di potere, forza, imponenza, mentre egli ha
scelto di mostrarsi nel fallimento e nell'impotenza della Croce,
per dare speranza ai falliti e agli ultimi.
Per il cristiano la Croce è l'arco
glorioso che unisce cielo e terra. L'arcobaleno di Noè è
l'anticipazione profetica della Croce gloriosa. Sapere contemplare
nella Croce la Gloria di Dio che incanta il cuore dell'uomo è
la sapienza suprema. L'arte difficile
di cui Giovanni evangelista è maestro (Gv. 17, 22-26):
«...La gloria che tu hai
dato a me, io l'ho data a loro, perché siano come
noi una cosa sola.
Io in loro e tu in me, perché siano
perfetti nell'unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato
e li hai amati come hai amato me.
Padre, voglio che anche quelli che mi hai
dato siano con me dove sono io, perché contemplino
la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché tu
mi hai amato prima della creazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto,
ma io ti ho conosciuto; questi sanno che tu mi hai mandato.
E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere,
perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io
in loro».
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