Orarel Caravaggio - Mani di Gesù Cristo
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di Massimo Zambelli
 

Caravaggio - Deposizione e sepoltura di Gesù Cristo

Deposizione del Caravaggio, 1602-1604.
Chi vuole può
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Importanza della storicità di Gesù

E' veramente esistito Gesù Cristo? Ma soprattutto, è proprio necessario che sia storicamente esistito? Non basterebbe, per trarne un vantaggio esistenziale, farne un simbolo di luce e salvezza, ossia una della tante rappresentazioni simboliche della vera, profonda ed eterna legge - umana e cosmica - di “morte e rinascita”?

Scollegare Cristo dalla carnalità di Gesù di Nazareth sembrerebbe rendere disponibile la messianicità salvifica che egli impersona per manifestazioni simili e prossime al tempo e alla sensibilità del credente, che in questo modo lo potrebbe incontrare ovunque e come preferisce. Ma tutto ciò, seppure attraente, avviene a spese della realisticità di un tale salvatore adattato alle esigenze personali. Il dubbio che tutto quello splendore mitologico sia una proiezione dell'io insoddisfatto non lascerà tranquillo lo spirito di chi, oltre a credere, ama pensare.

L'apostolo Giovanni, nella sua prima lettera, annuncia la lieta notizia che "Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio". Oggi questo invito sembra in parte realizzato, grazie però a un malinteso. Nella mentalità “New Age” infatti, che impregna la coscienza credente delle società occidentali, il Cristo è accettato ma solo dopo aver metaforizzato il Gesù che lo ha incarnato. Risultato reso possibile dal fatto che nell’ambiente spiritualista contemporaneo si privilegia la convinzione che le cose di Dio, e in particolare del Dio cristiano, sono vere perché credute e non credute perché vere.

In termini filosofici si chiama soggettivismo. Una malattia moderna per la quale il soggetto umano è la fucina della realtà: di valori, verità, canoni estetici, “cose e persone”. Non si distingue più tra realtà e illusione; il mentale prevale sul reale; il virtuale e l’artificiale misurano il naturale; i valori e il senso più che scoperti sono inventati; la felicità deriva dalla volontà: basta esserne convinti e basta autoconvincersi. Forse ripetendo all'infinito una frase in un training autoipnotico: "penso positivo", "Gesù è risorto", "sono felice", "questo è bene", "io sono immortale"...

L'accettazione di un Cristo snaturato, cosmico, astrale, disincarnato e mitico, mistico e metafisico, è tipica di un sentire religioso fideistico, perenne tentazione post-cristiana. Ma anche in casa "razionalista" si può incontrare un analogo pregiudizio sulla consistenza storica della vita di Cristo. La motivazione è ovviamente diversa. Si vuole trasformare la storia di Cristo in favola per poter considerare i cristiani come infantili creduloni. In entrambe le concezioni sarà comunque facile rilevare che il pregiudizio sulla storicità di Gesù si trasforma contestualmente in un pregiudizio anticattolico o in genere antiecclesiale.

La Chiesa infatti, che si autocomprende come il “Corpo di Cristo”, presente in lei nella Parola e nei Sacramenti, può legittimare una tale pretesa di presenza salvifica solo se la “puntualità” dell’incontrabilità di Cristo in lei è il proseguimento della “puntualità” della manifestazione messianica in Gesù, solo cioè se il Salvatore si è reso presente in un “punto” preciso ed esclusivo della storia. Come recita l’incipit della prima enciclica di Giovanni Paolo II, la “Redemptor hominis”, “il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia”. Il punto di un centro.

La materialità della salvezza

C’è un filo logico diretto tra Gesù Cristo e la Chiesa. E’ la materialità della salvezza. E’ possibile incontrare il Salvatore nella materialità del suono della Parola e dei Sacramenti (acqua, olio, mani, voce, unione degli sposi) amministrati dalla Chiesa, proprio perché il Dio cristiano ha voluto salvare l’umanità intrecciandosi nella unicità dell'uomo Gesù con la materia finita. Si capisce allora che la volontà di scollegare Cristo da Gesù mira ad avere la disponibilità di Cristo senza dover dipendere dalla Chiesa. Con il rischio, rifiutando di cercarlo dove lui ha deciso di farsi incontrare, di non trovare che un Cristo fatto a propria immagine.

Inoltre, fare di Gesù Cristo una legge cosmica, un principio sovratemporale e un archetipo perpetuamente modulabile, ha come conseguenza inesorabile e pericolosa la continua sacralizzazione di realtà profane. Di volta in volta qualcuno riuscirà ad accreditarsi presso le folle come l'epifania del Messia salvatore. Una persona o una realtà assorbiranno le fiducie e le speranze degli uomini. E la storia insegna che saranno sempre malriposte. Anche la Chiesa, quando ha dimenticato e dimentica che “Lumen gentium” è Lui e non lei, può cadere in questa trappola di sacrale autoreferenzialità e non proporsi più come il dito che indica e la mano che ama, ma come realtà indicata e mano da baciare perché regale anziché ministeriale. Tra i volti recenti di queste sacrali metamorfosi vi sono la Razza e il Partito, i Furher (che significa Signore) e le Classi (operaia o tecnocratica), la Natura e la Tecnica, il Mercato, e la Scienza. In particolare quest'ultima, con le sue scoperte e applicazioni, si propone massicciamente come l'autorità salvifica capace di promettere perfino e "davvero" l'immortalità (vedi la clonazione dei Raeliani che non a caso si definiscono "religione atea").

E’ pertanto nostra convinzione che sia assolutamente centrale e vitale che al Cristo della fede corrisponda un Gesù della storia.

  • Perché ci sia salvezza dall'esilio della morte ci deve essere un corpo che attraversa da dentro a fuori il varco altrimenti a senso unico dell'ultimo nemico. La fantasia “cristopoietica”, creatrice di "cristi", non può nulla contro la durezza della pietra tombale.
  • Inoltre identificare il Messia con Gesù serve come antidoto anti-idolatrico, sempre necessario per contrastare la febbre sacralizzatrice. "Se qualcuno vi dirà: Ecco, il Cristo è qui, o: E' là, non ci credete". (Mt 24, 23)
  • Infine, a questi motivi centrali aggiungiamo, in sintonia con le pennellate antropologiche del Papa in "Fides et ratio", che l'uomo è creato da Dio come esploratore del reale e cercatore della verità oggettiva e che quindi l'intelletto, strumento per questa indagine, non è un optional secondario, ma ciò che nobilita questa creatura che sta all'incrocio di molti regni. Credere a ciò che non è vero, o, peggio ancora, del quale non interessa sapere se lo sia, oltre che essere un atteggiamento bassamente utilitarista, è semplicemente non umano. Un uomo che non lancia l'intelletto alla ricerca del vero è come una Ferrari che va ai cinquanta. Bella e sprecata.

La Deposizione del Caravaggio

Cercando un'immagine che aiutasse ad esprimere il contenuto delle pagine di Andrea Nicolotti, dopo avere ammirato i dipinti di Raffaello che ritraggono il bambino Gesù nudo e concreto che si intrattiene con Giovanni Battista, ho incontrato la Deposizione nel sepolcro di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, che per un suo particolare mi ha sedotto e pienamente convinto. E' una tela commissionata per la cappella Vittrici in Santa Maria in Vallicella a Roma, realizzata dal Caravaggio dal 1602 al 1604 e oggi collocata nella Pinacoteca Vaticana. Proverò a leggere il dipinto evidenziando alcuni particolari che potrebbero sfuggire a uno sguardo affrettato.

Un gruppo di cinque persone sovrasta il corpo nudo e orizzontale dello Sconfitto. Ogni deposizione dalla Croce, mostrando il dinoccolato corpo di un defunto che obbedisce alle leggi della gravità e va dove altri lo mettono, esprime sempre la fine di una grande speranza. Gesù è veramente morto. Le donne sullo sfondo sono le tre Marie di cui ci parla l'evangelista Giovanni. A destra della scena secondo gli interpreti è raffigurata con volto giovane Maria di Cleofa, sorella o cugina di Maria madre di Gesù, la quale esprime il suo dolore con le braccia alzate e aperte a ventaglio verso un cielo nero e indecifrabile.

Davanti a lei Maria di Magdala, dai lunghi capelli raccolti in leggere trecce e con il volto chinato, sta piangendo e asciuga le lacrime in un fazzoletto stretto nel pugno. Il suo pianto ricorda l'episodio raccontato da Luca della peccatrice perdonata. Una donna anonima che bagna di lacrime i piedi di Gesù, li asciuga con i capelli e li cosparge di olio profumato. Mentre Gesù, davanti agli scandalizzati ospiti, elogia il suo amore e la perdona: "La tua fede ti ha salvata; và in pace!" Nella tradizione l'anonima peccatrice e la Maddalena sono state spesso associate, mentre invece oggi l'esegesi è propensa a non identificarle.

A sinistra c'è l'ultima Maria, la madre. Le sue braccia sono aperte e stese sul corpo del figlio. La mano destra è sul capo e la sinistra, appena intravista sotto il braccio di Maria di Cleofa, è sopra i piedi. In questo modo le due Marie, con le braccia in verticale la prima e in orizzontale la seconda, creano una barriera, quasi per contrastare con il loro corpo l'avanzare dell'oscurità che incombe alle spalle del gruppo. Una barriera creata più dal desiderio di amorosa protezione che dall'effettiva efficacia. perché di lì a poco l'ombra del sepolcro che si intravede sotto la grande pietra, avvolgerà il corpo ancora luminoso di Gesù.

Chi sono gli uomini in primo piano? A sinistra è riconoscibile un uomo vestito elegantemente che potrebbe corrispondere al ricco Giuseppe di Arimatea, discepolo "nascosto" di Gesù a cui offre il sepolcro ancora nuovo. Altri invece vi vedono l'apostolo Giovanni, presente alla crocifissione. Se seguiamo il resoconto del vangelo di Giovanni (Gv 19,38-42), il personaggio di destra potrebbe essere Nicodemo: "Essi [Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo] presero il corpo di Gesù e lo avvolsero in bende...". Nicodemo è chinato e ha il volto girato verso lo spettatore. Ma sembra guardare in basso, verso il luogo in cui sta per posare il corpo dell'amato Signore. Ha gambe potenti e vigorose e i suoi piedi sono ben visibili e ben piantati per terra. Lui che ha gambe così solide e ancora governate dalla propria volontà, stringe a sé le gambe ora ferme del "messaggero di liete notizie". Furono quelle gambe potenti a portarlo di notte, lui che ora sta accompagnando il suo Signore nella notte della tomba, ad incontrare Gesù che gli parlò della necessità, per entrare nel regno di Dio, di nascere dall'acqua e dallo Spirito (Gv 3,1-21). Sta aiutando il "Disceso" (3,13) a scendere nell'ultimo ripostiglio di mondo lontano da Dio, nell'estrema distanza dello Sheol, perché possa essere innalzato come Figlio dell'Uomo e dare la vita eterna a chi crede in lui.

Giuseppe di Arimatea, il discepolo "nascosto per timore dei Giudei", è sopra il petto di Gesù e con la mano destra tocca la ferita del costato. Viene in mente l'apostolo Giovanni, altro candidato a rappresentare quella figura, quando durante l'Ultima cena posa il capo sul petto di Gesù. E sarà lui a raccontare, come incipit della sua prima lettera, quel magnifico inno alla insostituibile materialità di Gesù: "Ciò che era fin da principio... ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo a voi".

Una parola sulla roccia e sul telo. La solida roccia è la lapide del sepolcro. Per un perfetto gioco di luce l'angolo sembra sporgere dal quadro. Oltre alla "pungente" inesorabilità della morte, qui considerata, gli interpreti della storia dell'arte vi hanno letto il riferimento alla "Roccia che, scartata dai costruttori, è divenuta testata d'angolo". E anche alla Kefa', Pietra, su cui è fondata solidamente la Chiesa, voluta da Gesù come suo corpo per essere presente in tutti i secoli e luoghi del mondo (non assomiglia questo Nicodemo del Caravaggio a Simon Pietro, la Kefa' su cui Gesù ha fondato la Chiesa?).

Il candido telo è la Sindone. La veste nuziale del morto. Egli scende negli inferi, lo Sheol, come lo sconfitto e l'abbandonato, ma indossa l'abito della festa. E' cioè un morto particolare. E' senza peccato e la Morte, che lo sa, trova strano che egli stia fra le sue prede. Lo guarda con sospetto. Dopo l'orgiastico entusiasmo con cui lo ha ingoiato, togliendolo dal mondo, che riesce a dominare con la paura, si dev'essere subito accorta che qualcosa non tornava. Penso si possa immaginare che nei giorni del silenzio, dal Venerdì al Sabato, in cui la Speranza di Dio è stata rigettata dal potere del Mondo, la Morte avesse come un gran mal di pancia. Giorni di solitudine per il mondo ingrato e di preoccupazione per il Principe di questo mondo. La mattina di Pasqua fu svelato al Mondo e alla Morte il disegno di Dio: "Non lascerai che il tuo Santo veda la corruzione". Tornarono alla mente il già detto nelle parole profetiche della Scrittura, ma troppo tardi. Il danno era fatto e lo "scherzo" riuscito. Il mondo è liberato. Pace per tutti.

Il dito di Dio

Ma il particolare che più mi ha colpito del dipinto del Caravaggio è la mano di Gesù. Il dito di Dio che tocca il mondo. In un punto preciso. Ognuno di noi, rispetto a quel punto, ha una coppia tutta sua di coordinate spazio-temporali che lo individuano, nel duplice senso che individuano lui, Gesù, e noi, in un rapporto unico e irripetibile. Il braccio di Gesù pende verticalmente e le sue dita toccano la grande pietra che sorregge il gruppo di persone. Come dicevo è una pietra spigolosa, tagliente, inesorabile. Una solidità messa in rilievo dai piedi ben piantati di Nicodemo.

 
Gesù e Marat
Muovere il Mouse sulla foto

I critici dell'arte sono unanimi nel rilevare che la composizione del Cristo morto è il vero pregio del dipinto di Caravaggio. Il braccio di Cristo pende verso il basso, attirato dalla forza di gravità. La natura lo domina. Ma ecco che le dita della sua mano si "impigliano" nel bordo della pietra. L'indice e il medio fanno da perno, fermando momentaneamente la mano e arcuando leggermente il braccio che viene spostano in avanti dalla pietas dei discepoli. Con questo effetto grafico, che permette di intuire il movimento, Caravaggio riesce a partecipare all'osservatore l'incedere verso il sepolcro del corpo di Gesù. Il senso di abbandono è talmente riuscito da essere stato fonte di ispirazione per altri artisti, come per esempio per il celebre dipinto di David "La morte di Marat" (vedi il rollover dell'immagine qui a lato eseguito spostandovi sopra il mouse).

Gesù è il punto di incontro tra Dio e l'uomo. Il toccare la pietra tombale da parte di Gesù può certamente significare un'attribuzione di identità, quasi volesse dire "Io sono la Roccia sulla quale poggia la mia Chiesa di discepoli". Ma in questo contesto trovo più interessante pensare quel gesto come l'eloquente espressione di quel che significa il viaggio dell'Incarnazione. Entrare nel mondo, diventare materia, partecipare alla morte. Dio in Gesù ha toccato la caducità del cosmo e della condizione umana. Senza questo contatto la vanità della nostra apparizione resta intatta. Nonostante i trucchi cosmetici. Per questo è essenziale che un certo uomo di Galilea, chiamato Gesù, sia veramente esistito. E per questo sono importanti le ricerche storiche, come la presente del Dott. Nicolotti, che aiutano a diradare i fumi della miticità spiritualista e della scetticità razionalista. Un dito ci ha toccato. Quella carne ci ha salvato.

Massimo Zambelli